Voucher e post-verità: ascesa e morte fulminante dei ‘buoni lavoro’

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di Gaetano Veneto

Le più recenti vicende legislative e le iniziative del Governo in merito alla vicenda del voucher, con i loro riflessi sul sistema di relazioni industriali del nostro Paese –nel delicato momento che vede l’attuale Esecutivo, che ha appena superato i primi 100 giorni di vita, impegnato, dopo la firma di un incerto e labile documento di rinnovo, almeno di volontà, del Trattato di Roma dopo 60 anni di vita ondivaga– lasciano, se non esterrefatti, quando si consideri il contesto europeo, a sua volta impegnato a cercare nuovi equilibri (specie dopo la Brexit), almeno perplessi sulla navigazione, forse un po’ troppo a vista, dei reggitori del timone dello Stivale.

Valga il vero, come scriveva molti anni addietro un grande maestro del Diritto del Lavoro, utilizzando questo appello e dandogli il dovuto supporto con riferimenti, il più possibile, oggettivi, sul piano dei numeri e della giudicabilità dei risultati.

Prendiamo un esempio. Per analizzare le politiche del lavoro, interventi legislativi, sperati o esecrati, per valutare l’andamento del mercato del lavoro e dell’occupazione nel nostro Paese, si usano spesso –pure troppo– dati statistici che generano incertezze e incredulità fra gli addetti ai lavori e nell’intera opinione pubblica, creando confusione o, talvolta, sfiducia.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti: per alcuni, giudicati ottimisti, quale che sia la loro ispirazione di buona o mala fede, o ancora valutati opportunisti o, nella migliore ipotesi, realisti (lasciando la scelta al lettore e accettando, di mala voglia, l’uso-abuso dell’hashtag) “l’’Italia ha svoltato” e la ripresa dell’occupazione, invero estremamente debole e mal supportata da dati statistici contraddittori, sarebbe significativa e inarrestabile, così da indurre finalmente i giovani, in particolare quelli ad alta o media scolarità, a rimanere in Italia per sfruttare occasioni di lavoro, non passando attraverso il ‘calcetto’ o altri sport di tal fatta, ma giustamente dando pieno significato e rilevanza al ‘curriculum professionale’ e ai valori morali, a dispetto di un Governante che, senza neppure accorgersene, allunga una corposa triste lista di incauti o incolti colleghi del recente passato.

Per altri osservatori, classificati volta a volta “gufi” o altri animali delle tenebre, “professori” (chissà perché?) “parrucconi”, o ancora “disfattisti-reduci”, ritenuti responsabili del degrado del recente sistema politico-sociale fino al 2014 (e anche qui la scelta è lasciata al lettore), l’Italia sarebbe il Paese dove parlare di reale ripresa della produzione e dell’occupazione è ancor più provocatorio che falso, a fronte di un’emigrazione giovanile –specialmente dei più scolarizzati– che si accentua, non soltanto nelle zone più povere o meno fortunate come il Centro o il Mezzogiorno, ma perfino in province come la ricca Brescia, dove il tasso di disoccupazione è tra i più bassi in assoluto (nell’ultimo anno la città lombarda ha visto la fuga di 3.800 giovani, come si legge in un editoriale dell’inserto locale del Corriere della Sera, scritto a inizio 2017).

Per ora, un dato è certo, non contestato da nessuno: a fronte di ben più elevati ritmi di ripresa produttiva degli altri partner di un’Europa oggi a 27, nel più generale –pur lento– risveglio del sistema neo o post-capitalistico, il nostro Paese appare più indietro, arrancando nella ripresa di una accettabile marcia.

Per optare tra la prima ipotesi di un #l’ItaliaHaSvoltato (e non controsenso) o la seconda che, viceversa, afferma che #èTuttoSbagliato, #èTuttoDaRifare (riandando, nel tempo, alle parole di un grande campione del ciclismo, Gino Bartali, per contrappasso storico fiorentino…), dobbiamo porci qualche domanda. Come la mettiamo con i dati statistici? Come credere alla loro validità, o invece alla perdita di questa, visto l’utilizzo tanto diverso, e spesso contrastante, da parte degli esperti? Siamo di fronte alla tipica espressione di quella crisi dell’informazione, pilotata o meno, oggi plasticamente definita con le parole della “politica delle post-verità”?

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Interpretare i dati per legittimare visioni, progetti e decisioni

È apparso, tradotto in questi giorni in Italia, un interessante saggio pubblicato sul The Guardian londinese, dal titolo: “La fine dei fatti. L’autore, William Davies, sociologo ed economista inglese, dimostra che la statistica –scienza che per oltre tre secoli, via via affinandosi sempre di più, è stato per i governanti uno strumento importante per studiare, capire e gestire la società– oggi, è sottoposta a continua manipolazione e asservimento, così da essersi creata attorno un clima di diffidenza che si estende anche agli esperti della materia. Questi ultimi, interpretando dati preselezionati, creano le premesse per la diffusione delle fake news, pomposamente definite post-verità, o per noi italiani, con più semplice approccio, fotografate come ‘balle’, poste a base per sostenere tesi, forse meglio postulati, capaci di legittimare a loro volta politiche più o meno avventurose nei vari campi dell’economia e della società.

Per rendere concreto il discorso può servire qualche esempio, magari partendo da una divertente –forse sarebbe meglio dire ridicola– notizia offerta dalla stampa, anche quella vantatamente specialistica, e dalle televisioni, vuoi di ‘regime’ o ‘indipendenti’, proprio di recente.

Diffondendo e interpretando, senza un minimo di approfondimento critico, i dati sulla produzione dei primi mesi del 2017 nel nostro Paese, si è scritto che la spinta dell’industria italiana –che aveva permesso, alla fine del 2016, di aumentare dello 0,1% la stima del misero dato della produzione industriale attraverso la lettura dei risultati degli ultimi mesi dell’anno precedente– si è esaurita con una frenata a gennaio, segnando un calo, in proporzione, del 2,3%. In sostanza, secondo gli ‘esperti’ dell’Istat, disaggregando i dati, questo pur preoccupante risultato –che però già si prevede potrà essere smentito in positivo dalla rilevazione dei mesi successivi– è parzialmente salvato dalla crescita vorticosa dell’economia di una regione, da incoronare come regina dell’export del nostro Paese, che ha segnato un incremento, udite udite (!), del… 53%. La regione? Ebbene sì, è la… Basilicata.

La soluzione dell’enigma, fra il ridicolo e l’assurdo, sta nell’utilizzo di dati, cosiddetti ‘percentuali’ e non usando masse globali o assolute: la crescita percentuale della Basilicata è dovuta soprattutto all’export di autoveicoli di una nota multinazionale, oggi italo(?)-americana.
Riscontro ulteriore a questa originale analisi, con tutte le avventate deduzioni connesse, si trova oggi in altri dati, quelli concernenti l’andamento dell’export delle province italiane: così si segnala il primato di… Potenza (con una crescita del 58%), seguita da Milano e, subito dopo, ancora da… Frosinone (+35,7%), non a caso capoluogo di una provincia dove ha sede Cassino, con il suo stabilimento di autoveicoli dello stesso marchio di quello lucano.

Troppo semplice e del tutto inutile, come si può dedurre immediatamente, è la tesi del primato attribuito a una delle più povere regioni e di due tra le più povere province d’Italia in tema di ripresa produttiva, con tutte le avventate fumisterie connesse in ordine al rilancio del PIL o dell’export dell’industria italiana e, di conseguenza, al trend di un Paese che, in realtà, continua ad arrancare con un futuro, al momento, tutt’altro che roseo.

Come si è appena visto, l’esempio subito innanzi riportato permette di ridimensionare, se non svuotare di ogni significato, le elucubrazioni di addetti ai lavori e delle forze politiche utilizzatori di quei dati, insieme con –più o meno avventate– deduzioni da parte degli operatori del mondo del lavoro e del connesso diritto, sui trend occupazionali negli ultimi mesi nel nostro Paese. Solo così ci si può liberare da sterili polemiche su decimali di punto, in più o in meno, per l’occupazione e la produzione, in un mercato in realtà stagnante e comunque tra i peggiori tra le economie più sviluppate, in timida ripresa, pur se non ancora fuori dalla crisi, dell’Occidente europeo.

Fakenews

Il contrasto tra realtà e apparenza: i contratti di lavoro

In un mondo oggi segnato da profonde incertezze, i dati statistici, così come presi ed elaborati, riescono a dividere l’opinione pubblica che viene a porsi su due divergenti posizioni. Secondo alcuni, come sostiene Davies, utilizzare i dati statistici, così come sopra dimostrati manipolati, a fini politici costituirebbe un’operazione elitaria e antidemocratica, cosicché pochi privilegiati nei vari Paesi riuscirebbero a imporre le loro visioni, i loro progetti e le loro decisioni a tutti gli altri (un po’ come avveniva nei secoli addietro quando le statistiche supportavano, garantendole, le scelte dei governi più o meno autoritari, unici depositari delle ricerche e dei dati conseguenti, degli esperti e degli studiosi).

Secondo altri, invece, la possibilità di accedere, interpretandoli, a migliaia di dati statistici, da parte di tutti, utilizzando tutte le tipologie di social media, giornalisti, cittadini comuni e politici di ogni tendenza, permette di analizzare la società nel suo complesso con dati verificabili, cosicché vi sarebbe la più piena libertà, di interpretare liberamente i dati statistici, lasciando però, nello stesso tempo, un pericoloso spazio a demagoghi e contraffattori (i ‘populisti’?, oggi è di moda il richiamo), per lanciare messaggi di ogni fatta.

La realtà sta nell’assoluta relatività delle scelte dei dati da analizzare: se si vuol limitare il discorso al tema delle relazioni industriali, dei rapporti tra le parti sociali nel mondo del lavoro, con il connesso sistema contrattuale e legislativo che crea l’ordinamento giuslavoristico, si tratta di scegliere metodi di classificazione che, per portare a risultati, si basino sulle definizioni, universalmente condivise e validate, di termini quali l’occupato, l’inoccupato, il disoccupato, il precario, lo stabile, utilizzando, per esempio, quest’ultimo termine secondo l’interpretazione comune del concetto di ‘stabilità’.

In questo caso, infatti, chi è ‘stabile’? Un lavoratore a tempo determinato, fosse solo per quel tempo preso a misura, o uno a tempo indeterminato, magari usque ad…? Si cerchi il parametro comune.
In merito a quanto innanzi, si pongono ulteriori temi e problemi quando si pensi che molte persone, oggi, entrano ed escono –in continuazione– dal mondo del lavoro, molto spesso per motivi che possono concernere non tanto le condizioni del mercato del lavoro ma, magari, per esigenze familiari, stato di salute, residenza o domicilio facilmente mutabili, come avviene sempre più nella società post-capitalistica.

Solo effettuata questa articolata e differenziata analisi, è possibile comprendere l’apparente contrasto, e comunque sempre costante diversità, tra dati forniti, per esempio, dall’Inps o dall’Istat o, ancora, dal Ministero del Lavoro. Così, diviene altrettanto facile comprendere come cambino costantemente valutazioni e conseguenti ipotesi di lavoro in risposta a presunte, o troppo semplicisticamente accertate, esigenze sociali da parte del legislatore o delle politiche di concertazione sindacale. Le stesse posizioni della giurisprudenza, e ancor più della dottrina, nel campo del Diritto del Lavoro, non possono non risentire di queste divergenze di interpretazioni e valutazioni di una realtà che, di per sé, oggi difficilmente classificabile, rischia di restare caotica nella, pur necessaria, sua ridefinizione.

Voucher

Il caso voucher e la discussione sul mini-jobs

Un ultimo esempio, per acclarare tutto quanto finora scritto, estremamente significativo a conferma dell’estrema difficoltà di utilizzare dati certi, è quello riguardante l’uso dei voucher. Scontato l’abuso dell’istituto –ormai universalmente riconosciuto– nella sua crescita, come elemento patologico e inflazionato che ha contribuito a una profonda distorsione del mercato del lavoro, si era proposto un referendum abrogativo, incidendo così –marginalmente sul piano quantitativo, ma significativamente su quello qualitativo– sulla tanto vantata affermazione del nuovo sistema di regolazione del mercato del lavoro introdotto dal Jobs Act.

Tuttavia la stessa Cigl –prima e vivace protagonista della battaglia per l’abolizione di questo ‘maligno’ istituto, illecito e immorale strumento apparentemente alternativo all’altra piaga, il lavoro nero– si era indotta, dopo un dibattito interno, ad aprire –sia pur con diffidenza– alla proposta di ridurne l’ambito di gestione e utilizzo soltanto alle famiglie o a minime aree di imprenditoria individuale in specifici e limitati campi del lavoro, attraverso un rigoroso monopolio gestionale da parte dell’Inps, eliminando pertanto il mercato libero, perfino nelle tabaccherie, come è avvenuto per diversi anni, degli stessi voucher.

Si è cercato, nel caso in esame (e ancora si sta cercando), da parte del Governo, di trovare una via d’uscita legislativa o, extrema ratio, concertata tra le forze sociali, alternativa a un referendum che nuovamente avrebbe diviso il Paese e, insieme, ricreato e acuito divisioni di fondo, anche politiche e ideologiche. Soprattutto, per tornare al tema più generale, si sta tentando, questa volta forse giustamente, di uscire dal pantano della lettura e interpretazione di dati statistici che, volta a volta, sono stati violentati nella loro logica astratta attraverso il meccanismo, ormai invalso nell’uso di questa scelta, concernente l’anteposizione della raccolta dei dati, ponendo poi agli stessi, o ponendosi, le domande utili per la tesi da sostenere.

Così oggi si parla da parte del Governo di mini-jobs, ormai da molti anni in uso in alcuni Paesi dell’Unione europea, la Germania fra tutti, che costituirebbero dei veri e propri mini contratti di lavoro per pochi giorni alla settimana e/o in particolari periodi dell’anno e, ancora, in determinati settori (un po’ per tornare all’iniziale ipotesi di voucher, cara al compianto Marco Biagi e a base della genesi dell’istituto).

Se si dovesse proseguire su questa strada, se il Governo si prepara a presentare, per decreto e successiva legge o attraverso una auspicabile contrattazione-concertazione con i sindacati e tutte le forze sociali, una soluzione di tal fatta, è bene tuttavia tener presente che, ormai da qualche anno, dal 2014 in poi, anche in Germania, in particolare nelle zone occidentali della stessa, vivace è la discussione sui mini-jobs e su alcuni usi distorti degli stessi.

Si scrive e si dice che si favorisce il precariato e l’utilizzo o sottoutilizzo delle fasce più deboli dei giovani e degli immigrati, con i conseguenti riflessi sulle tensioni sociali nelle categorie interessate. Eppure in quel Paese l’intreccio e il matrimonio scuola-lavoro, apprendistato, training e modelli contrattuali, particolarmente a livello territoriale e aziendale, sono tutti temi ben più approfonditi e, nelle sperimentazioni, ben più avanzati e felicemente affrontati che nella nostra Italia. Importante su queste tematiche sarà perciò il coinvolgimento in Italia di tutti gli operatori del mondo del lavoro, anche e soprattutto attraverso un’approfondita e diffusa informazione con costruttivi confronti e partecipazione il più possibile allargata.

Quanto appena scritto sull’esigenza di intervenire sul vuoto legislativo, affrettatamente e avventatamente creato da un Governo –forse condizionato ed eterodiretto, come sostenuto da qualcuno– per evitare un nuovo referendum, appare particolarmente rilevante quando si voglia cercar di proporre qualche suggerimento sul tema del mercato del lavoro, ancora particolarmente statico, paludoso e difficile da vitalizzare, con particolare riferimento ad alcune categorie, giovani e donne, e ad alcune aree, il Mezzogiorno soprattutto, del nostro Paese.

La polemica sulla disoccupazione e sul suo trend, sul valore e le distorsioni dei voucher, sul rapporto tra occupati, inoccupati e disoccupati, ha creato nel nostro Paese soltanto un utile terreno di coltura per populismo e demagogia, proprio con la forzatura e l’utilizzo di dati statistici come quelli che hanno fatto della Basilicata e delle province di Potenza e Frosinone le punte della… ripresa produttiva e dell’expo italiano: il giudizio lo lasciamo ai lettori.

Per quanto ci concerne, per concludere, basta solo segnalare l’importanza e la necessità di un diverso rigore nella ricerca e nell’uso della scienza statistica ricordando che, in prospettiva, non si tratta di scegliere una “politica dei fatti guidata dalle élites politiche delle emozioni, guidata dal populismo” distorcendo e asservendo dati statistici spudoratamente.

Si tratta invece, di nuovo utilizzando i suggerimenti di Davies, di una battaglia “tra chi ancora crede nella conoscenza” e, pertanto, nell’approfondimento e nell’uso corretto della scienza e della metodologia statistica, e “chi trae profitto dalla… disintegrazione” e manipolazione di dati parziali, quando non falsi e, ancora, asserviti alle brame di un potere, mediocre quanto, anche troppo palesemente, teso a manipolare persone e istituzioni, per difendersi e consolidarsi non curandosi della gravità del momento e delle prospettive della nostra società, in particolare del nostro Mezzogiorno.

Commento

  • […] Un interessante approfondimento sui dati statistici della crisi del mercato del lavoro e la loro interpretazione. G. Veneto Voucher e post-verità: i buoni lavoro tra ascesa e rapida morte. Risorse Umane e non Umane: Le più recenti vicende legislative e le iniziative del Governo in merito alla vicenda del voucher, con i loro riflessi sul sistema di relazioni industriali del nostro Paese –nel delicato momento che vede l’attuale Esecutivo, che ha appena superato i primi 100 giorni di vita, impegnato, dopo la firma di un incerto e labile documento di rinnovo, almeno di volontà, del Trattato di Roma dopo 60 anni di vita ondivaga– lasciano, se non esterrefatti, quando si consideri il contesto europeo, a sua volta impegnato a cercare nuovi equilibri (specie dopo la Brexit), almeno perplessi sulla navigazione, forse un po’ troppo a vista, dei reggitori del timone dello Stivale … Leggi […]

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