Tag: impresa imperfetta

Vedere oltre

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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

Quando pure saremo usciti da questa infinita crisi e ci avvieremo come persone e come azienda verso una fase di ripresa, come pensiamo di gestire la nuova normalità? Posto il fatto che il sistema dentro il quale operiamo, quello dell’economia del mercato globale dei beni e della finanza, è per sua natura instabile, occorrerà tuttavia non gettare via l’esperienza della crisi e provare invece a correggere qualcosa, a fare diversamente, se non al livello di sistema, almeno nel piccolo della nostra azione quotidiana. Non è possibile infatti non imparare dagli errori, né è accettabile rassegnarsi allo scetticismo e al senso d’impotenza davanti alle forze occulte che reggono il mondo (che nostalgia, per la ‘mano invisibile’ che una volta regolava il mercato…). Alla grande e bella politica, se c’è, consegniamo la missione di migliorare il mondo, o almeno di fermare la frana verso la catastrofe; ma a noi stessi, ai nostri colleghi, ai nostri diretti responsabili, ai numerosi stakeholders personali e professionali cui siamo connessi, è affidata l’azione del cambiamento nelle organizzazioni. A chi diversamente? Ai responsabili apicali, ai manager top-top, ai vertici che cambiano più velocemente delle quotazioni di borsa? Il direttore marketing della mia azienda potrà trovare il modo di reimpostare su basi di lunga durata la relazione con il sistema-cliente; il direttore finanziario potrà rinunciare a ricercare ogni espediente contabile per fare il lifting dei conti, e spingere invece la macchina manageriale verso la realizzazione di margini più solidi e meno volatili; il project manager non cercherà accondiscendenti scorciatoie per chiudere il suo progetto ai costi concessi, ma considererà senza sconti i costi di un serio recovery plan dei rischi; il direttore acquisti non strangolerà i fornitori ricattandoli sull’acquisizione della commessa, potrà invece adoperarsi per costruire con essi una relazione stabile, solidale e trasparente; il direttore operations potrà concentrarsi sulla effettiva riduzione degli sprechi migliorando i processi senza necessariamente stressare fino alla rottura i parametri di produttività della macchina. E il direttore del personale? Lui comincerà a prendere la parola nelle riunioni del comitato esecutivo e a dire che il costo del lavoro è sempre sotto controllo, ma è ormai una componente secondaria del costo del prodotto; che il valore di una competenza tenuta allo stato dell’arte crea il valore; che per questo la formazione non è più un optional e chi la evita non può far carriera in quest’azienda; che così com’è l’Mbo spinge i manager a fare guasti e a impegnarsi solo su obiettivi di breve periodo; che senza rigore e trasparenza nei criteri di promozione e retribuzione si perde l’anima dell’impresa; che, cari colleghi, non possiamo più tornare a fare come prima della crisi, qualcosa va cambiato e tocca a ognuno di noi capire cosa. Non vorrei essere nei suoi panni. Forse proprio a lui, al direttore delle ‘risorse umane’, tocca la missione più impegnativa per la costruzione di una nuova impresa. A ciascuno il suo, senza aspettare la regia del capo azienda, ma facendosi promotore di un cambiamento non eterodiretto, concreto e privo di rumore, anche piccolo, ma grande e contagioso perché frutto di una motivazione intrinseca e professionale. Nessun cambiamento avviene infatti per decreto. Come ci ha insegnato Kotter1 per innescare il cambiamento occorre generare un “senso di urgenza” nelle organizzazioni e poi agire con la leva di una potente e diffusa comunicazione. Ma prima di tutto avere una visione, vedere oltre. La capacità di ‘vedere oltre’2 è una competenza irrinunciabile per ogni professionista. Ecco: abbiamo sul nostro tavolo e nei nostri uffici tutti gli ingredienti per agire. Basterebbe rispondere alla domanda: cosa ci portiamo, in termini di pratiche, di processi, di comportamenti organizzativi, nell’impresa dopo la crisi? E cosa è opportuno invece gettare via per consentire alla mongolfiera di sollevarsi di nuovo? Non c’è una ricetta, un manuale di prescrizioni. C’è la mia personale sensibilità umana e professionale. Ed è tanto.  Leggi tutto >

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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

La ferrea indifferenza dell’azienda verso i propri collaboratori ricorda quella della signora Fermina Daza nel celebre romanzo di Marquez. Ricordate? Dovranno trascorrere “cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese” prima che ella conceda il suo amore a Florentino Ariza. Se consideriamo che il loro primo incontro possa essere avvenuto in adolescenza, probabilmente intorno ai 14 anni, l’età in cui il malinconico Florentino corona il suo sogno raggiunge i fatidici 67 anni del nuovo requisito pensionistico. Troppo tardi. Quando nasce in azienda l’amore verso le proprie persone? La realtà sembra condannare il rapporto di lavoro a lunghi anni di indifferenza, in cui né l’individuo né l’organizzazione riescono a compiere un passo l’uno in direzione dell’altro. Nel racconto di Marquez l’ambita e impassibile Fermina sposa un altro, un uomo di potere, compiendo una scelta basata su di un calcolo di convenienza, salvo poi pentirsene quando ormai il tempo è finito. In tante imprese –con l’eccezione forse delle Pmi in cui l’imprenditore ha un volto e una voce e i rapporti con i suoi collaboratori sono di profonda conoscenza interpersonale– il feeling non c’è. L’amore di questi collaboratori verso l’azienda non è corrisposto quando i criteri di gestione non sono chiari né compresi, quando la comunicazione esclude l’ascolto, quando lo sviluppo delle persone è estraneo agli obiettivi dei capi e gli Mbo li schiacciano unicamente a perseguire la logica della soddisfazione dell’azionista, quando la caccia ai costi diventa l’unica ossessiva filosofia di gestione e il valore del lavoro diventa costo. I tempi della crisi, nella più devastante depressione dal dopoguerra che ha investito l’Occidente, sono come i tempi del colera: la mortalità delle aziende è epidemica, e con essa quella del lavoro. Chi riesce a sopravvivere deve vaccinarsi per evitare il contagio. Nel clima del ‘si salvi chi può’ la tentazione di mollare e dismettere è forte. Chi resiste cade spesso nell’errore fatale di smantellare tutto ciò che non è ritenuto direttamente produttivo, nell’illusione che guidare un’impresa sia come pilotare una mongolfiera in cui basti liberarsi della zavorra per riprendere quota. È così che ai nostri tempi le relazioni con le Università, le scuole, il territorio, i centri di ricerca, la cura del knowledge management, le corporate university e le faculty interne, gli stage, le borse di studio e altro ancora, vengono buttati via come ciarpame che fa solo peso. Anche nelle migliori aziende, quelle riconosciute come ‘best innovator’ o ‘Top employer’ da ambìti premi internazionali, quelle operanti sulla frontiera delle tecnologie nei settori più avanzati, come ad esempio l’Elettronica, lo Spazio, l’Automazione, l’Ingegneria dei sistemi, l’Amministratore Delegato avveduto come prima azione tira la leva della riduzione del personale e del blocco di ogni ragionevole turnover, poi cancella per decreto tutto ciò che attiene all’employer branding, ignorando quanto sia costato costruirlo, e quanto alto per l’impresa è il costo della perdita di reputazione e di identità collettiva. A far questo son buoni tutti, non occorre essere grandi manager, ma come davanti all’argomento del ‘rischio default’ tutto appare coerente, giustificato e necessario. È constatazione comune quanto profondo sia da alcuni anni il taglio dei budget della formazione all’interno delle aziende, col paradosso di una aumentata disponibilità dei fondi europei e interprofessionali cui corrisponde una riduzione drastica delle attività, se non una vera e propria renitenza alla partecipazione dei dipendenti alla formazione benché finanziata, ma percepita come dispersione produttiva, costo immediato a fronte di un ritorno incerto in un futuro improbabile. Il punto è che anche la formazione dev’essere messa in discussione nelle sue modalità e nei suoi rituali. Ai tempi del colera occorre vaccinarsi e creare un cordone sanitario. La via può essere quella di fare della formazione la pratica per costruire un ‘patto sul futuro’, e rimettere al cuore dell’impresa la motivazione all’autosviluppo. Non più una formazione a sportello, usa e getta, basata su pianificazioni top-down e analisi dei bisogni condotte con salottiere interviste ai top manager, ma una leva che identifichi le competenze distintive e di trend dell’impresa, e faciliti sull’umile campo del day by day lo sviluppo di comunità di pratica tra gli attori delle diverse famiglie professionali. Saranno essi a progettare la formazione che serve per trainare l’uscita dal guado. Leggi tutto >

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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

L’azienda era ormai stata ridotta a controllata di una holding internazionale con sede in Lussemburgo, partecipazione in varie consociate estere e nei più diversi settori di business. Una proprietà tanto più diafana, anonima, indecifrabile, quanto più virtuale ed evanescente si faceva la stessa attività dell’impresa: servizi di global service per terzi, gestione di appalti, intermediazione commerciale. Un’azienda derivata, come derivati erano i titoli in cui investiva e con i quali moltiplicava il capitale. Privata dell’anima, quell’impresa che un tempo sentiva battere con ritmo perfetto il suo cuore svizzero, guidata ora dalla sola logica finanziaria, aveva perso il senso del valore, non generava più valore, ma pura speculazione. Era divenuta di carta, ed esposta a ogni vento, prima o poi, come un castello di carte sarebbe crollata. In questa drammatica fase di crisi dell’economia sono molti i manager, ma in particolare quelli che hanno superato la soglia dei 50, che hanno scoperto –spesso anche con stupore– che il re è nudo. L’azienda in cui avevano investito un’intera vita professionale li aveva traditi, il cambiamento del business e dell’assetto societario negli ultimi dieci anni era stato così strisciante da non imporsi all’evidenza. E loro erano rimasti bolliti come rane, nell’acqua fredda via via portata a ebollizione. La gestione guidata unicamente o prevalentemente dal criterio finanziario ha fatto anche di molte imprese ‘aziende derivate’, bacate al pari dei prodotti finanziari che hanno contaminato il mondo dell’economia, fino a portarlo al limite del collasso. Ci sono vite, la mia, quelle di molti che conosco, chiamate necessariamente a ristrutturarsi, affrontando un cammino duro, a volte anche mortificante perché occorre spesso bussare a porte altrui. Ci sono competenze ultradecennali che nel riciclo dei manager andranno disperse. Il PIL, anche se dovesse tornare a crescere, non misurerà questi aspetti. L’esperienza della vita aziendale ci ha necessariamente formati, più di qualunque altra categoria di professionisti, alla gestione del cambiamento. Ma si è trattato di una formazione on the job, maturata nel turnover delle responsabilità, nelle sfide di obiettivi sempre nuovi e spesso contraddittori, nell’adozione di nuove procedure, nell’innovazione di ogni processo. Difficile che ci sia stata offerta l’opportunità di una formazione effettiva, quella capace di concettualizzare l’esperienza, di generare nuovi schemi mentali e provocare un cambiamento personale. Ho conosciuto direttori del Personale che mi hanno detto: questo non è un problema dell’azienda, è un problema personale. Non pensiamo certo di spendere soldi per migliorare la loro capacità di affrontare i cambiamenti, son cavoli loro, d’altra parte è proprio qui che li misuriamo: hinc sunt leones! Bravi, aziendalisti, rampanti! Certo. Ogni manager, più che preoccuparsi solo di tenere la propria cassetta degli attrezzi aggiornata e in ordine, dovrebbe in primis provvedere alla capacità di investire su se stesso, come dire badare alla propria sopravvivenza. Ma l’impresa? Non è chiamata l’impresa, oggi più che mai, a rialzarsi sulle proprie stampelle e a provare a camminare verso la propria ripresa? Non vi è dubbio che le imprese che escono dal tunnel non sono quelle che chiedono provvidenze governative o addebitano i propri problemi ai facili alibi della scarsa flessibilità e produttività dei dipendenti italiani. Ma quelle invece che trovano le stampelle necessarie per rialzarsi proprio nelle qualità umane delle proprie ‘risorse umane’. Neppure però basta dire investire nello sviluppo delle risorse umane, perché non c’è una formazione per tutte le stagioni. Se c’è stato un modello di education adeguato ai tempi di espansione dell’economia, ne occorre oggi uno diverso, nei contenuti e nei metodi, adatto alla fase di endemica instabilità del sistema. Leggi tutto >

Etica e affari

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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

Può un’azienda in crisi rifiutare una commessa per ragioni etiche? Fa notizia che la Morellato Termotecnica di Pisa abbia rifiutato una commessa legata all’industria bellica: la realizzazione di un impianto di refrigerazione per una vasca di prova dei siluri militari. C’è qualcosa di epico in questo rifiuto: da una parte un ordine di 30 mila euro, con un margine superiore al 30%, che avrebbe dato una boccata d’ossigeno ai dipendenti in CIGS; dall’altra i valori aziendali. Da una parte un’impresa artigianale piccola ma molto qualificata, dall’altra il colosso Finmeccanica. L’affermazione della propria identità contro la logica finanziaria del business. Davide contro Golia. La vera notizia è che ancora oggi, in un desolante scenario di crisi mondiale che ha smentito i miti del mercato, Davide può almeno rivendicare il suo diritto ad esistere. Con il suo gran rifiuto, la piccola Morellato ha lanciato forse un colpo di marketing, ma anche un colpo di fionda alla ‘normalità’. Anche se non lo pratichiamo, in tanti siamo convinti che non si può uscire dalla crisi restando dentro gli stessi schemi che l’hanno provocata. Immersi fino ad affogare in un mondo in cui la logica di cassa prevarica la gestione industriale, le banche continuano a dettare le regole, le retribuzioni dei top manager a mantenersi scandalosamente sproporzionate rispetto a quelle di chi opera, aspettiamo impotenti l’affacciarsi di una ‘nuova normalità’, di un diverso modello di sviluppo o anche di non-sviluppo1, qualcosa che rompa lo schema. Il modello capitalistico nella sua evoluzione postindustriale sembra essere irreversibile e insensibile ad ogni tentativo di temperarne le contraddizioni, eppure c’è un’impresa che può permettersi di pagare un costo (almeno sociale) e selezionare le proprie commesse non sulla base di un criterio finanziario, ma su ben altri parametri, come quelli della coerenza con la propria vision: “abbiamo una grande sfida davanti. Cambiare uno stile di vita che esaurisce le risorse del pianeta e assicurare alle generazioni che verranno una società migliore, più pulita, più solidale”2. Allora possiamo domandarci: che caratteristiche ha un’impresa del genere, come fa a produrre risultati e a stare sul mercato? Se guardiamo bene dentro un’organizzazione del genere non dovremo discostarci molto dal modello della learning organisation teorizzato da Peter Senge nella prima metà degli anni ’90. L’impresa capace di durare nel tempo e di espandere il proprio futuro la si riconosce immediatamente sulla base di due ‘caratteristiche genetiche’: è ancorata ai propri valori fondanti, è guidata da una stakeholder’s strategy. In altri termini, il ritorno del capitale investito è visto nel medio termine, nella capacità di generare valore per tutti i portatori d’interesse e non solo nell’esclusivo interesse dell’azionista. Alla base del suo vitale sistema di funzionamento vi troviamo un’architettura organizzativa leggera come una conchiglia (Senge la difinisce appunto shell) e una spirale di apprendimento, dominio del cambiamento continuo, alimentata dalle competenze delle sue persone, dalla loro sensibilità e consapevolezza, dalle loro attitudini e convinzioni. Nel modello di Senge, al di là delle competenze tecnico-professionali mantenute allo stato dell’arte grazie alla motivazione dei knowledge workers, l’organizzazione che apprende fa leva su cinque discipline condivise da tutto il personale: la padronanza di se stessi, la capacità di rivedere i propri modelli mentali, la visione condivisa di un futuro cui desideriamo di appartenere, la capacità di apprendere come team e non solo come individui, il pensiero sistemico quale costante coerenza nelle relazioni tra tutte le parti del sistema impresa. Ma guardiamoci ancora più dentro. Troveremo che nel suo quotidiano funzionamento questo strano giocattolo è tenuto insieme da un sistema informativo capace di monitorare e misurare ogni processo, dal riferimento a standard e metodi di qualità, dal modo organico e non discrezionale di fare acquisti come di presentare offerte, da un sistema di controllo interno volto a monitorare sistematicamente gli andamenti e le prestazioni, da obiettivi comunicati e condivisi, da un atteggiamento responsabile dei collaboratori, incompatibile con comportamenti lassisti e poco trasparenti. Un’impresa anomala? Un’impresa etica? Una gestione etica dell’impresa può evidentemente anche produrre business e business di pregio. Ma non è finalizzata a questo, è invece indipendente dal business perché l’etica occupa uno spazio che nessuna logica di calcolo può limitare o sopprimere: uno spazio di libertà che è sostanza delle singole persone e scelta dell’impresa che ricerca il valore. Un’impresa normale. La dimensione etica dell’impresa sembra essere tutta qui: in una vera aziendalizzazione dell’impresa. Leggi tutto >

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