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Job Shortage

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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

La drammatica mancanza del lavoro oggi non riguarda tutti indistintamente, ha un preciso identikit a due facce: ha il volto pallido dei giovani compresi tra i 18 e i 30 anni, ancora più se laureati, donne e meridionali; la faccia tesa e ruvida di coloro che avendo perso il lavoro dopo i 50 anni, ancor più se professionalizzati, incontrano insormontabili difficoltà di ricollocazione perché ritenuti vecchi da una società vecchia. Nel guado di una crisi che non sembra ancora poter offrire una nuova normalità, la società della vecchia Europa sta denunciando la propria impotenza a includere giovani e anziani nel tessuto produttivo: nessuna progettualità, nessuna politica mirata a costruire le condizioni per bonificare la palude in cui stanno affogando proprio le due generazioni più distanti. La mancanza di futuro è assenza di speranza, forse il segno più evidente di un errore di sistema dell’economia postindustriale. Se c’è una ‘mano invisibile’ all’opera, è quella della finanza tossica che regge le sorti del mercato globale e neutralizza ogni visione di un mondo nuovo. Quali politiche perseguono i governi? Quali piazze mobilitano i sindacati per sostenere un programma? E la visione di un nuovo modello di sviluppo che nasca dalla crisi dov’è? Qualcuno ha raccolto le idee di Rifkin, La civiltà dell’empatia, le riflessioni di Darhendorf sulla fine della democrazia o la Caritas in veritate di Benedetto XVI sull’economia della gratuità? “Lo sviluppo ha bisogno della verità” –sostiene Ratzinger– “bisogna mobilitarsi affinché l’economia evolva verso esiti pienamente umani”. Ma nessuno, tanto meno la Chiesa, si è mosso. E in azienda? Anche qui, in questo luogo-non luogo generatore di valore, non sembra ci si sia interrogati abbastanza sulla natura dei fallimenti, sull’incapacità di reggere le spallate di un mercato in grave contrazione, sulla possibilità di trovare una nuova via al modo di fare impresa. Forse proprio qui, nel fortino degli shareholders, governato esclusivamente dai risultati di cassa, vanno ricercate le cause prime della riduzione del lavoro: il rigido blocco del turnover e il dimensionamento degli organici, molto più dell’innovazione e della cura del cliente, sono stati i postulati su cui si è retta finora la gestione della crisi. In ingresso le porte del fortino sono state chiuse in faccia alle nuove generazioni; in uscita sono stati esiliati ed esodati i più anziani, perché più costosi e più vicini alla pensione. Questa la ferrea logica di un modello di business basato sulla gerarchia e sul controllo, sul potere indiscusso dei supermanager e sulla massimizzazione del valore per gli azionisti, un modello certamente nemmeno scalfito dal maquillage delle varie ‘carte dei valori’, codici etici, bilanci di sostenibilità. Aidp –Associazione Italiana per la Direzione del Personale– ha recentemente comunicato di aver aderito a Parks – Liberi e Uguali, associazione che si propone di promuovere luoghi di lavoro ‘inclusivi’ e rispettosi di tutti dipendenti, “indipendentemente dal loro orientamento sessuale o dalla loro identità di genere”, per realizzare al massimo nelle aziende socie le opportunità di business legate alla valorizzazione delle diversità (www.parksdiversity.eu). Rosa Parks nel 1955 rifiutò di alzarsi e cedere il suo posto in autobus a un passeggero bianco. Un semplice piccolo gesto da cui partì un movimento che liberò l’America dalla segregazione razziale. A Parks hanno aderito aziende come Ikea, Telecom, Roche, Johnson & Johnson, IBM. Mi chiedo se, oltre a convenire di evitare che il lavoro venga negato ai gay, queste aziende si pongano anche l’obiettivo di evitare la discriminazione sul mercato del lavoro degli anziani ‘high skilled’ e dei giovani, in particolare laureati, donne e meridionali. Lo stato di fatto è che ormai i giovani ‘né studio né lavoro’ vivono ancora a casa oltre i 30 anni, apatici, passivi, computerizzati, e cominciano a godere anche della asfissiante compagnia dei loro genitori ‘né lavoro né pensione’. Ma se le imprese non evolvono verso una nuova cultura industriale, molto possono però fare le Istituzioni locali e le Università. Non certo per creare lavoro, ma per meglio attrezzare i giovani e i senior a espandere il proprio futuro. L’allenamento a sviluppare essenziali competenze d’intelligenza emotiva, dalla self-leadership alla comunicazione, all’influenza e alla resilienza, l’educazione all’autosviluppo, la conoscenza del mercato del lavoro e delle sue regole, non sono materia di studi né scolastici né universitari, eppure rappresentano tasselli portanti per pavimentare la strada che collega lo studio al lavoro, e costruire future possibilità di placement. Nei lontanissimi primi anni ’60 John Kennedy, se non sbaglio, disse agli Americani pressappoco questo: se non possiamo costruire un futuro ai nostri figli, possiamo almeno costruire i nostri figli per il futuro. Cominciamo a farlo. Alcune Università come Luiss e Suor Orsola Benincasa (private!) hanno cominciato ad accompagnare i giovani ad attraversare il confine. Leggi tutto >

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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

Correva l’anno 1997, e come Calvino nelle sue lezioni americane proponeva le virtù da portare nel nuovo millennio, così dagli Stati Uniti la McKinsey annunciava la nuova era dei talenti, coniando il termine di successo ‘guerra dei talenti’. Il passaggio dall’economia industriale all’economia della conoscenza avrebbe messo l’intangibile al cuore del valore dell’impresa, un nuovo business composto da innovazione e conoscenza alla cui gestione solo i talenti avrebbero potuto provvedere. D’altra parte la grande bolla speculativa dell’Information Technology esplosa a cavallo dei due secoli sembrava sostenere questa visione, di fatto le aziende combattevano per contendersi i migliori, o almeno i buoni laureati in ingegneria elettronica e informatica in un mercato caratterizzato dall’ansia dello ‘skill shortage’ e della ‘retention’ dei neo laureati. Ricordate? Ancora nel 2001 un rapporto McKinsey intitolava: “La guerra dei talenti continuerà e le imprese non sono preparate”, sostenendo che essa avrebbe impegnato “almeno le due prossime decadi”, in quanto le forze che la causano sono profonde e potenti. Siamo dunque ancora in guerra per i talenti, e lo saremo almeno fino al 2020? Ma la realtà sotto i nostri occhi sembra aver decisamente smentito la profezia di Ed Michaels e Helen Handfield-Jones: gli analisti della McKinsey si erano basati su di una previsione demografica che indicava proprio intorno al 2010 la drastica uscita dalle aziende dei baby boomers, dipendenti di età compresa tra i 35 e i 44 anni nel 2000, in cui era inclusa la fascia dei dirigenti/executive. Da qui la necessità di attrezzarsi per tempo per compensare questa emorragia. Certo gli autori non potevano prevedere una crisi che nemmeno gli economisti hanno saputo annunciare, ma è un fatto che negli ultimi anni le direzioni aziendali, almeno in Italia, invece di combattere per rimpiazzare gli executives, abbiano scelto la guerra agli over 50, esodati senza nemmeno troppo badare a spese e a competenze, con l’unico maledetto e concreto obiettivo di ridurre i costi di struttura. Così ai talenti scalpitanti sul mercato del lavoro dell’inizio del millennio si sono sostituite schiere di giovani brillanti precari e di esperti consulenti, interim manager disperatamente pronti ad offrire la propria esperienza per pochi mesi di affitto. Ma la crisi è anche un alibi, e ha comunque cause che non possiamo considerare indipendenti dai comportamenti e dalle scelte del management. Il rapporto McKinsey del 2001 declinava 10 domande ai manager, la cui risposta “no” avrebbe indicato una scoperta vulnerabilità. La prima di queste domande era: “alla valorizzazione dei talenti nella tua organizzazione dai la stessa attenzione che presti ai problemi di budget o di produzione?”. E la seconda incalzava: “investi il 30-40% o più del tuo tempo per allenare il tuo bacino di talenti? Hai fatto del talento il tuo lavoro?”. In quanti possiamo onestamente rispondere “sì”? E così abbiamo attraversato il secolo senza forse porci mai davvero l’obiettivo di costruire una ‘fabbrica dei talenti’, una fabbrica virtuale che è dentro e fuori l’azienda, nell’impresa come nell’Università, un progetto che, come tutti i grandi progetti, è basato su di una mentalità collettiva, un mindset radicato nella cultura sociale come nel modo di fare impresa. Una grande opera, molto più della TAV o del ponte sullo Stretto. Si sono presentati in 80.000 nei mesi scorsi al più grande concorso del Paese. Ottantamila giovani talenti aggrappati al sogno di X Factor. Solo a Bari ad aprile ne erano cinquemila, più che ai test di ammissione a Medicina, più dei questuanti che bloccarono il traffico di Roma per l’inaugurazione del nuovo negozio di Trony. Meno però dei trecentomila che hanno fatto domanda per i 1.995 posti al Comune di Roma. Non è una folla fatua e indistinta, né si partecipa ad una delle tante lotterie con cui la disoccupazione sfida la fortuna. L’anno scorso questi ragazzi erano cinquantamila, avevano studiato, molti avevano fatto il conservatorio o scuola di canto, hanno provato sotto le luci e le telecamere degli studi televisivi a ‘svelare’ il talento che avevano coltivato e che non sapevano a chi altri gridare. È inquietante questa folla che s’ingrossa, come pure l’idea della funzione della televisione come ufficio di collocamento dei talenti. Forse perché la cultura dell’apparire, del successo, della notorietà ha finito per coltivare il seme del talento solo nel canto. Forse perché nelle imprese e nelle organizzazioni non c’è concorso. Il talento non è quello degli spermatozoi, quello dell’uno su mille ce la fa. È altro, ma è una pianta che cresce solo se coltivata con cura e alla luce del sole. Leggi tutto >

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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

Oggi ho avuto una di quelle giornate, in effetti sono anni che non ho due giornate uguali. Non so che mi succede, ma da allora -poteva essere il ‘90 o forse il ‘94, non ricordo, ma certo era fine secolo- da quando sono Capo del Personale ed ho una segretaria, i giorni hanno smesso di somigliarsi. Forse è la responsabilità, forse è la vita stessa del lavoro che si avvita intorno al caos delle richieste, delle mail, delle telefonate, delle riunioni a getto continuo. Si naviga sul filo dell’emergenza, tra onde che s’innalzano e si avvallano in successione compulsiva. Ieri l’AD mi ha tenuto praticamente in ostaggio fino alle 22, riunione gestionale. “Gestionale” la chiamano, ma si riferisce alla gestione dei programmi, perché quanto alla gestione del personale da anni non ce n’è mai traccia all’ordine del giorno, e neppure si trova un minuto in coda per parlarne. Non capisco la mia presenza ad avallare i numeri e ad annuire alle strigliate sonore del Capo ora a uno ora a un altro. Ieri però ho intuito, io c’entro e come! Nubi di piombo all’orizzonte, si sta profilando un buco di cinquanta milioni di euro, i nuovi contratti ci sono, ma non riusciamo ad onorare quelli vecchi, perdiamo margini su margini, più avanza il budget più perdiamo, diavolo. L’azionista ci farà fuori tutti quanti, ha detto il Capo. Ci vuole un piano credibile che lasci intendere a loro e alle banche una sterzata, di quelle che si sente la sgommata, chiaro? Chiaro, hanno ripetuto tutti in coro. E solo toccando la gente e pestando i piedi ai sindacati possiamo avere credito. Lei, – mi ha detto puntandomi l’indice di entrambe le mani – prepari lo stato di crisi e metta in pista le azioni di alleggerimento organici. A partire dai fancazzisti e dagli indiretti, chiaro? – ha aggiunto. Chiaro ho risposto. Oggi invece ho pensato di prendermela calma, una giornata di riflessione prima di buttarmi sulle azioni del piano industriale. Una riunione coi miei, e poi mi son messo due colloqui, uno prima di pranzo, uno al pomeriggio, non che fossero proprio necessari, ma ho preferito non assegnarli ai miei collaboratori, così, giusto per non perdere l’allenamento al contatto diretto coi vivi. Alle 12 ho ricevuto De Simone, ex operaio, lo passai impiegato nell’89 o forse prima, addetto import-erxport, indiretto amministrativo, informatizzato (lo dice la scheda). “Direttore, ho cinquantasette anni, il Governo salvitalia mi ha spostato il pensionamento di altri 6 anni, e va bene, io voglio, debbo lavorare, non c’è problema. Ma a causa della crisi mia moglie è stata mandata via dall’agenzia immobiliare, erano otto anni, lavorava a nero e sopportava ogni sorta di angherie, e stava zitta, mi capite? Mia figlia la più piccola ha dovuto interrompere gli studi e trovarsi un lavoro in un call center, per cinquecento euro al mese, prestazioni occasionali è scritto sul contratto. Mi capisce? Mia figlia la più grande ha finito l’università e col massimo dei voti non lavora e non studia. Dottore, mi capisca, non sopporto l’idea di non riuscire a mantenere la mia famiglia. Ho dato fondo ai risparmi, e mi resta solo la casa. Ora non sarò in grado neppure di pagare le tasse. Per gli altri, per quelli con gli stipendi a sei zeri, nessuna tassa gli cambierà la vita, per me sì. Ho venduto anche la macchina perché con quel che costa l’assicurazione e la benzina ora ci facciamo la spesa. Mi aiuti, la prego, se dovessi finire in cassa perderei quella poca voglia di vivere che mi è rimasta”. Capisco, gli ho detto, e mi sono recato in mensa con la testa bassa e le mani in tasca. Alle 15 ho ricevuto Fabio Fabbri, un neolaureato segnalatomi dalla Bocconi. Una boccata d’aria fresca. “Caro Fabio, ingegnere gestionale, vero? Vedo qui che lei si è laureato con la lode, con tesi sperimentale sui nuovi modelli di ingegneria logistica per la manutenzione degli impianti hi-tech. Benissimo, potremmo organizzarle uno stage qui da noi. Ma mi dica, mi dica lei delle sue esperienze post laurea”. “Guardi dottore, ho conseguito la laurea in quattro anni e una sessione, ma due anni fa. Sono ormai fuori termine per uno stage. Durante gli studi ho fatto vacanze in Irlanda, per frequentare un corso di lingua, a Dublino, e ho ottenuto li il Toefl. Certo ne ho scaricate casse di birra e ne ho serviti hotdog, ma mi sono pagato quest’esperienza. Per la tesi ho contattato una grande azienda di Milano che mi ha fatto lavorare in tirocinio formativo per 6 mesi, senza rimborso spese. Dopo la laurea mi hanno tenuto altri sei mesi con un rimborso di quattrocentocinquanta, lordi. Mi avevano assegnato a un nuovo progetto di gestione in global service degli impianti di un’importante azienda cliente, avevano ancora interesse alla mia collaborazione, ma con quei soldi ho deciso di pagarmi un Master in Business Administration e li ho lasciati. Qui da voi, considerando le peculiari caratteristiche dei processi, potrei candidarmi a gestire progetti anche complessi di industrializzazione dei prodotti, anche come supporto a un Project Manager esperto…”. “Vede, caro Fabbri, noi abbiamo urgenza di cambiare il mix: meno amministrativi indiretti, intendo dire, e più ingegneri diretti, meno ultracinquantenni e più ventenni. S’intende le offriremmo inizialmente un contratto a progetto, poi potremmo prorogare ed eventualmente prenderla come somministrato. In futuro potremmo anche considerare un tempo indeterminato senza articolo 18. D’altra parte che noia un lavoro fisso, non trova?”. Fissando la mia fede al dito, mi ha risposto “Chiaro, dottore”. Leggi tutto >

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