Non c’è alternativa ai sindacati. Lunga vita alla contrattazione

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Intervista a Lorenzo Bordogna, Professore di Sociologia dei processi economici e del lavoro presso l’Università degli Studi di Milano

di Dario Colombo

I sindacati non sono destinati a scomparire e in Italia si sono difesi meglio che altrove. Anzi, secondo alcuni osservatori, se il Jobs Act avesse successo nello scoraggiare le finte collaborazioni e le finte partite Iva, ora i sindacati avrebbero forse l’opportunità di avvicinare tutti coloro (soprattutto giovani) che prima erano nell’area del precariato. E in azienda restano spesso una controparte utile per gli imprenditori: perché se a livello confederale le considerazioni e le divisioni politiche possono prevalere sul merito delle questioni, nell’impresa c’è la volontà di risolvere i problemi.

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Le difficoltà dei sindacati sono innegabili. Studiosi e protagonisti concordano che i rappresentanti dei lavoratori non stiano affrontando un momento facile, anche se i numeri degli iscritti mostrano una discreta capacità di tenuta, nonostante la crisi.
Gli ultimi dati disponibili (2015) hanno rivelato che, per esempio, tra i lavoratori attivi, la Cgil ha avuto 139.393 iscritti in meno rispetto al 2008 (-5,1%), l’anno in cui è scoppiata la crisi, mentre la Cisl ha registrato un aumento di circa 88mila iscritti (3,9%). Se si considera il totale generale, pensionati inclusi, gli iscritti alla Cgil sono diminuiti nello stesso periodo del 3,4% e del 4,6% quelli della Cisl. Tutto sommato una diminuzione abbastanza contenuta, anche in un confronto internazionale.
La ragione delle difficoltà nella rappresentanza, tuttavia, non riguarda solo alcune strategie discutibili dei sindacati, per esempio nei confronti dei giovani: anche la globalizzazione e la crisi hanno dato un bel contributo.
Però c’è una buona notizia per i sindacati: almeno nel prossimo futuro non è prevista la loro scomparsa. La previsione è di Lorenzo Bordogna, Professore di Sociologia dei processi economici e del lavoro presso l’Università degli Studi di Milano, secondo il quale “non c’è un’altra forma di rappresentanza specifica degli interessi dei lavoratori al di fuori delle organizzazioni sindacali; i partiti politici offrono una rappresentanza molto più eterogenea e diversificata”.

Ma le notizie positive per i sindacati non sono finite, almeno secondo l’accademico che, pur ammettendo le difficoltà, preferisce evidenziare altri aspetti sui quali i rappresentanti dei lavoratori possono ancora svolgere un importante ruolo. Per esempio? Tutta l’area (o almeno una buona parte) degli ex precari stabilizzati con i contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti introdotti dalla riforma del lavoro ribattezzata Jobs Act è oggi un’opportunità per i sindacati per crescere laddove prima non erano in grado di fare breccia. Questo, naturalmente, se la riforma riuscisse davvero a spostare in misura significativa verso i contratti a tempo indeterminato la vasta area dei rapporti di lavoro precari.

 

Globalizzazione e recessione economica
Ma andiamo con ordine. E torniamo alla crisi che, innegabilmente, stanno attraversando le varie sigle sindacali. Per Bordogna si tratta di difficoltà legate anche “all’apertura dei mercati”, che “ha riaperto una sfida rigettando i salari dentro la concorrenza”: “Il compito dei sindacati”, spiega il Professore di Sociologia dei processi economici e del lavoro, “è tirare fuori i salari dalla concorrenza, sia tra imprese sia tra lavoratori come teorizzato da John Commons, uno dei padri dell’economia istituzionalista nordamericana; l’internazionalizzazione dei mercati e lo stesso allargamento dell’Unione europea ai Paesi dell’ex blocco dell’Est, a bassi salari e bassi standard di protezione sociale, hanno costituito una sfida molto importante alla stabilità della rappresentanza”. L’allargamento a Est dell’Unione Europea ha aperto la possibilità di spostare le basi legali delle aziende dagli Stati della ‘vecchia Europa’ a quelli appena entrati nell’Ue, adeguando, pur con alcuni limiti, contratti e welfare agli standard della nuova realtà. Così come ha aperto la possibilità per le imprese di Paesi a bassi standard salariali e sociali, come per esempio quelli baltici, di andare a offrire i propri servizi in Stati ad alti standard, vedi quelli scandinavi, portando i loro lavoratori e applicando le loro regole. “La Corte di giustizia europea è intervenuta più volte a tamponare parzialmente le falle, imponendo di trovare un bilanciamento tra le libertà di stabilimento delle imprese e di fornitura dei servizi, previste dai Trattati e gli interessi dei lavoratori”, commenta Bordogna, “ma ormai l’allargamento a Paesi fortemente disomogenei rispetto agli altri dell’Ue aveva ‘ributtato nella concorrenza’ le condizioni di lavoro e quindi messo in difficoltà i sindacati”. Un effetto analogo, e che si aggiunge a quello della crescente internazionalizzazione dei mercati. Altro aspetto che ha contribuito alle difficoltà della rappresentanza è la crisi economica, soprattutto nei Paesi del Sud Europa, dove la recessione è stata molto pronunciata e prolungata. Tradotto significa pochi soldi a disposizione delle imprese e dunque trattative senza o con pochi aumenti contrattuali che, di fatto, vuol dire un’arma spuntata per i sindacati.
Poi c’è tutto l’aspetto legato all’introduzione dell’euro, la moneta unica dell’Eurozona: “Prima la politica dei redditi concertata era più importante e la rappresentanza, soprattutto delle maggiori confederazioni sindacali, aveva un ruolo di grande rilievo nella regolazione delle dinamiche salariali nazionali, e quindi dell’inflazione (basti pensare al Protocollo Ciampi sulla politica dei redditi del luglio 1993); poi la valuta nazionale è sparita e oggi le dinamiche inflazionistiche sono governate dalla Banca centrale europea (Bce), il che rende le politiche nazionali di concertazione meno essenziali”, precisa l’accademico.

 

In Europa 40 milioni di tesserati
Eppure la rappresentanza collettiva degli interessi dei lavoratori non è destinata a sparire. Basti pensare ai milioni di persone che pagano una tessera ogni mese, “oltre 40 milioni di iscritti alla Confederazione sindacale europea”: giusto per rendersi conto della quantità, significa circa l’intera popolazione dalla Spagna o quattro volte quella del Belgio.
Ciò, tuttavia, non toglie che il sindacato abbia, per così dire, pure delle colpe proprie nelle difficoltà che sta incontrando. “Il vero problema è stata l’incertezza nell’ adeguamento al nuovo scenario”, dice Bordogna: “In parte è stato fatto, ma non basta”. Si prenda, infatti, il caso del Jobs Act che da una parte “ha rivoluzionato lo Statuto dei lavoratori, togliendo uno dei punti di forza del sindacato, ma dall’altro poterebbe ridurre l’area del lavoro precario, spingendolo verso contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti e aprendo nuovi scenari per la rappresentanza sindacale”. Insomma, se per qualcuno la riforma del lavoro del Governo Renzi ha “reso tutti precari”, dall’altra, se ha successo, “potrebbe creare delle opportunità per la rappresentanza” e ora “sta al sindacato coglierle”.
Eppure, in attesa di nuovi sviluppi legati al Jobs Act, in tema di giovani, secondo l’accademico, la frattura con i sindacati è molto profonda, non solo in Italia: “Lo vedo anche tra i miei studenti, che spesso non avvertono le organizzazioni dei lavoratori come soggetti in grado di tutelarli; anzi, talvolta i giovani si considerano vittime delle politiche delle sigle sindacali, perché anche a loro, a torto o a ragione, imputano la mancanza di un lavoro stabile e i futuri problemi di pensione”.
Ma se le nuove generazioni restano (ancora) un problema, l’altra grande occasione per i rappresentanti dei lavoratori, secondo il professore dell’Università degli Studi di Milano, è legata all’Europa, sede ormai delle decisioni di politica economica dei Paesi dell’Ue: “Si tratta di un’arena molto importante in grado di condizionare le politiche economiche e sociali interne degli Stati e anche le relazioni industriali nazionali”, argomenta Bordogna, “purtroppo per troppo tempo non le è stata riconosciuta la giusta attenzione da parte delle organizzazioni di rappresentanza”. Oggi le cose stanno cambiando, ma secondo l’accademico “per anni, salvo rare eccezioni, sono state inviate a Bruxelles le seconde, a volte pure le terze, linee”. Un maggiore investimento in quella arena, dove peraltro rappresentanze sindacali e datoriali troverebbero significative convergenze (si pensi, per esempio, al contrasto alle misure di austerità in favore di politiche di sviluppo), potrebbe dare ai sindacati un ruolo importante, con effetti positivi anche a livello nazionale.

In azienda si risolvono i problemi
Tuttavia, se la situazione a livello nazionale è quella descritta dall’accademico, scendendo a livello aziendale, lo scenario è ben diverso. “Il sindacato si è adeguato abbastanza bene rispetto ad alcune nuove tematiche, come la flessibilità, il welfare aziendale e lo smart working; i conflitti, infatti, spesso restano al livello superiore”. E appunto, all’interno delle imprese, i rappresentanti dei lavoratori svolgono la loro parte “sedendosi al tavolo con l’obiettivo di risolvere i problemi”: “L’atteggiamento è proprio questo: ci sono due realtà portatrici di interessi in conflitto, ma con la volontà di risolverli. Si consideri il caso della Cgil che non ha firmato la riforma del modello contrattuale del 2009, ma questo non ha impedito alla Fiom di accettare o perfino essere protagonista di molti contratti aziendali”.
La mediazione, quindi, non è morta e anzi gode ancora di buona salute, tanto che Bordogna ha sottolineato come molti Direttori del Personale che ha conosciuto recentemente durante la tavola rotonda di Sviluppo&Organizzazione sul tema della contrattazione aziendale “abbiano mostrato interesse a costruire un dialogo con i sindacati”. Certo, non bisogna dimenticare che l’impresa è “per natura sede di interessi diversi”, ma anche di interessi che almeno in parte convergono, in particolare per quanto riguarda la crescita e lo sviluppo dell’impresa stessa.
Come sostengono vari studiosi, il rapporto di impiego è intrinsecamente un rapporto ‘a natura mista’, insieme conflittuale e cooperativo. E le relazioni industriali, specie a livello di impresa, sono spesso ‘forzate’ a sposare la linea del problem solving.
Purtroppo, però, l’Italia paga un pesante pegno conoscitivo rispetto ad altre esperienze nazionali: “In altri Paesi esistono rilevazioni periodiche e sistematiche sui rapporti di lavoro in azienda, mentre da noi non avviene e questo significa che viviamo in uno scenario di continue sperimentazioni senza che siano mai valutate. È il caso, per esempio, della riforma del modello contrattuale del 2009, che era stata adottata in via sperimentale per quattro anni, ma mai sottoposta a valutazione rigorosa”. Restano quindi le “sensazioni personali”. Che suggeriscono come “almeno a livello aziendale, la situazione sia meno drammatica di quello che si è soliti pensare”. 

 

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