Dare feedback e diventare coach. Come gestire i low performer

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di Leonardo Paoletti

La gestione dei collaboratori non performanti è un aspetto che riguarda tutti coloro che sono alla guida di un team di lavoro. Spesso, però, i manager hanno difficoltà a farsi carico di questi problemi e compiono errori che peggiorano le cose: non danno obiettivi precisi né incarichi chiari, inoltrano istruzioni criptiche e dedicano poco tempoalla comunicazione con le loro persone. E anche se spesso è evidente l’opportunismo dei collaboratori, spetta al manager risolvere il problema. Come? Individuando i low performer, dando loro feedback chiari e suggerendo come migliorare le prestazioni. Altrimenti il rischio è ritrovarsi in una situazione di difficile soluzione.

Molti anni fa, quando ero in azienda e ricoprivo la difficile posizione di Direttore del Personale –HR Manager per l’esattezza, già allora l’inglese nobilitava i ruoli– mi trovai a fare lunghe strategie con un responsabile, un mio collega con una prestigiosa posizione nell’organigramma aziendale, orientate a ’risolvere’ il problema di un suo collaboratore critico. Si trattava, ricordo perfettamente, di un personaggio con una notevole seniority aziendale che da qualche anno era considerato scarsamente performante anche a causa di comportamenti non coerenti con quelli da tempo richiesti al team in cui era inserito.
Nonostante avessimo già impiegato molte preziose ore del tempo di vari responsabili aziendali e avessimo consumato onerose ore-consulente dell’avvocato giuslavorista che seguiva l’azienda, continuavo ad avere una sensazione di disagio –a livello di pancia– che dava un debole segnale della mancanza di qualcosa di fondamentale. Ricordo di avere deciso, una sera in macchina tornando a casa, che il giorno dopo avrei incontrato la persona e avrei esplicitato con tutta la chiarezza possibile i dubbi che l’azienda aveva sui suoi comportamenti e sulla sua performance per capire anche il suo punto di vista.
Immaginate il mio stupore quando, avendo parlato in modo molto chiaro, la persona è caduta dalle nuvole e mi ha detto in modo franco e onesto che nessuno aveva mai parlato né di performance e nemmeno di comportamenti inadeguati con lui: la valutazione annuale degli ultimi due anni infatti mostrava un risultato sufficiente –3 in una scala con il massimo di 5– classico di una capo che vuole evitare problemi.
Il suo responsabile diretto, dunque, evitava di affrontare l’argomento delle sue prestazioni e dava la sensazione di evitarlo del tutto limitando i momenti di confronto allo stretto indispensabile, mentre il ‘capo del capo’ non lo aveva mai incontrato direttamente, ma solo in riunioni collettive (sappiamo bene quanto inefficaci siano i feedback collettivi!) o in rapidi saluti nei corridoi. Non sono ovviamente un ingenuo e so benissimo che, in modo indiretto o mediato, il messaggio che non lo si considerasse un top performer gli era giunto forte e chiaro, ma ognuno di noi conosce per esperienza diretta la capacità degli esseri umani di non capire ciò che è doloroso o scomodo capire.

Chiarezza e comunicazione
Nei 10 anni di esperienza nel mondo HR sono state moltissime le occasioni in cui mi veniva richiesto, per ruolo, di intervenire per la contestazione di comportamenti che già al momento della predisposizione della lettera mi rendevo conto essere stati gestiti malissimo: obiettivi non tempificati, incarichi assegnati nel corridoio, email criptiche inoltrate senza istruzioni; tutti sintomi di una palese carenza di chiarezza e di comunicazione tra il capo e il collaboratore. Anche in quei casi in cui era evidente l’opportunismo di quest’ultimo spesso diventava difficile intervenire efficacemente a causa di passi scomposti o mosse infelici dei responsabili che rendevano impossibile procedere. Chi ha esperienza nelle Risorse Umane sa benissimo quello di cui sto parlando: tardività, passaggi affrettati, demansionamento di fatto o veri e propri comportamenti mobbizzanti.
Di fronte ai casi più eclatanti che generavano talvolta la frustrazione dell’incapacità di agire nei confronti di dipendenti che sfruttavano i passi falsi dei propri capi e che in altri casi –ed erano per me i peggiori– richiedevano interminabili e faticose mediazioni o conciliazioni in varie sedi, mi immaginavo di progettare un corso di formazione per fornire metodi e strumenti per i responsabili delle risorse umane. È inutile dire che come HR Manager si trattava veramente di un esercizio onirico: sappiamo che è impossibile ricoprire il ruolo di formatore e HR Manager al tempo stesso in quanto i colleghi tendono a confondere il messaggio formativo con gli obiettivi del ruolo.

 

Gestire i casi critici
Quando ho deciso di dare una svolta alla mia attività professionale diventando formatore ed entrando nel variegato mondo della consulenza manageriale ho allegramente rimosso, non dovendomene più occupare, il ricordo di questo stato di disagio provato nelle mie esperienze aziendali, finché un giorno un mio cliente, HR Manager, mi ha invitato a pranzo per parlare di un problema. Ovvero lo stesso che avevo io anni prima!
È difficile ammetterlo, ma lo stimolo, come spesso accade, è stato del cliente anche se mi piacerebbe avere intercettato io il bisogno latente fornendo una soluzione ad hoc. Il cliente mi ha chiesto di strutturare un modulo di formazione per –testuali parole– “migliorare la sua qualità della vita”. L’obiettivo era formare i capi della sua azienda e i suoi colleghi a gestire i low performer tentandone il recupero con feedback e valutazioni efficaci e gestire, con una consapevolezza delle criticità procedurali, un eventuale caso irrecuperabile in modo da portarlo a lui dopo avere fatto i passaggi corretti e necessari.
Il primo corso sulla gestione dei low performer che ho progettato, strutturato ed erogato e il successo che ha avuto in quella media azienda nel Centro Italia, mi ha dimostrato come l’esigenza di avere metodi per la gestione dei collaboratori critici non è sentita solo da chi si occupa di Risorse Umane per “migliorare la propria vita aziendale”, ma è una necessità per chiunque gestisce persone ed è alla disperata ricerca di indicazioni e metodi per bilanciare la propria umana tendenza a evitare feedback negativi e di accontentarsi di risultati mediocri per evitare conflitti e discussioni faticose. Dal feedback di quel primo corso pare che qualcuno abbia tratto notevoli benefici anche nei rapporti familiari, ma questo è un altro tema.

Fermare la cattiva gestione
Approfondendo il tema mi sono reso conto che la tendenza è comune: mi sono imbattuto in una ricerca svolta da LeadershipIQ società di ricerca e consulenza di Washington DC e citata in We need to talk – tough conversations with your employee di Lynne Eisaguirre (Adam Media, 2008) nella quale solo il 14% dei manager intervistati afferma che nella propria azienda i low performer sono realmente gestiti, mentre solo il 17% dichiara di sentirsi a proprio agio nella gestione di queste persone. Mal comune?
Sembra di sì. Nel corso dei numerosi moduli finora effettuati ho raccolto alcuni dati qualitativi, credo significativi, per i quali devo ringraziare i partecipanti per la franchezza e per la disponibilità di mettersi in discussione su un argomento critico come questo. In sintesi i comportamenti manageriali negativi più gettonati in presenza di low performer risultano essere i seguenti:
• accontentarsi della ‘distribuzione normale’ giustificandosi, soprattutto con se stessi, con affermazioni del tipo: “Un 20% di incapaci è normale in ogni organizzazione”;
• seguire l’istinto che ci porta a evitare ogni contatto con il collaboratore svogliato per non peggiorare la situazione: “Se poi entriamo in conflitto non fa più neanche il poco che fa adesso”;
• sostituirsi al collaboratore poco performante calandosi nel ‘fare’: il capo sostitutivo è negativo quasi quanto il genitore che fa i compiti a casa per il figlio;
• mantenere l’output del gruppo inalterato aumentando il carico di lavoro degli altri collaboratori;
• giustificarsi per non avere la possibilità (voglia?) di costruire un sistema efficace di assegnazione di obiettivi, misurazione e controllo che permetterebbe di essere il più possibile oggettivi;
• non farsi domande ‘scomode’, quali: ho veramente fatto il possibile? Li riconoscete? Allora riconoscerete anche gli effetti diretti che questi comportamenti generano:
• gli output del gruppo diminuiscono sia in quantità sia in qualità;
• gli altri componenti del gruppo vedono aumentare il loro carico di lavoro per compensare le inefficienze di qualcuno;
• cala il morale del gruppo: si genera la sindrome del ‘chi me lo fa fare’;
• la leadership del capo viene messa in discussione per mancanza di equità: “A me chiede il sangue e all’altro non dice niente anche se non performa”;
• ovviamente si perde tempo e risorse (sempre nella ricerca di LeadershipIQ, l’87% dei collaboratori dichiara che lavorare con i low performer li spinge a cambiare lavoro, mentre il 93% afferma che lavorare con queste persone nel team riduce la loro produttività).

 

 


Dare feedback e diventare coach

Veniamo a cosa fare per tentare di mitigare il fenomeno dei low performer, la cui quantità sappiamo bene non è un problema di selezione errata, ma un vero punto critico di inefficacia manageriale.
I metodi previsti per la gestione dei low performer non richiedono passaggi concettuali complicati e rientrano ampiamente negli strumenti a disposizione del manager: il difficile, come sempre, è mantenere costantemente l’attenzione sul tema anche se distolti e presi da altre più attraenti e brillanti attività connesse a ciascun ruolo.
Vediamo quali sono i passaggi metodologici consigliati in casi di gestione di casi critici:
• identificare i low performer e i motivi che generano scarse prestazioni;
• dare un feedback chiaro e oggettivo sui punti critici;
• suggerire strade di soluzione e miglioramento della prestazione.
Banali vero? Attenzione perché spesso cose che sembrano banali, ma che non vengono fatte, nascondono qualche difficoltà profonda.
Il primo punto è già particolarmente complesso: identificare in modo oggettivo e valutare con precisione i collaboratori significa avere un sistema di assegnazione e valutazione degli obiettivi e misurazione delle performance il più chiaro e oggettivo possibile (obiettivi quantitativi e misurati, analisi continua degli scostamenti, benchmark con colleghi e/o altre organizzazioni, criteri di correzione, ecc).
Sul secondo punto è inutile infierire: nonostante lo sforzo aziendale per effettuare corsi su come dare il feedback, si continua a ridursi all’ultimo giorno prima della scadenza dei termini per il performance appraisal (o qualunque sia il nome con cui viene chiamato in azienda) riempiendo caselle e definendo punteggi sulla base di impressioni soggettive, ricordando talvolta solo gli ultimi episodi e soprattutto percependo la difficoltà di dare un giudizio negativo senza avere i numeri e gli esempi per sostenere l’immancabile: “Perché?”. E quindi tutto ok: rancio ottimo e abbondante e via alla prossima convention o meeting internazionale che fra l’altro sono più cool e attrattivi del performance appraisal e dell’ascoltare gli alibi e i problemi del collaboratore. Ma soprattutto il terzo punto richiede capacità di insegnamento, creatività e spirito di iniziativa che possono essere riassunti nella cosiddetta capacità di coaching, termine molto di moda che inorgoglisce i manager quando nei corsi viene spiegato che è un loro ruolo (forse lo rivendono la sera all’happy hour). Il problema è che lo stesso termine suscita forte ilarità nei collaboratori che partecipano ai corsi quando si cerca di dimostrare che il loro coach naturale in azienda è il capo stesso: “Ma se non ha neanche il tempo per leggere le mie email e per comunicarmi
decisioni che mi riguardano!”.

Sperimentazione individuale Nel 2015 il modulo formativo è stato riprogettato su richiesta di Cesare Maccari, HR Manager di Wolters Kluwer Italia allargando il focus anche ai top performer. Il modulo è stato rivisto per includere tutte le casistiche più complesse da gestire diventando un vero e proprio effective people management del quale sono state organizzate numerose edizioni.
Seguendo un’idea di Maccari abbiamo deciso di integrare nel modulo un ‘inserto formativo’ sugli aspetti legali e contrattuali della gestione dei collaboratori critici, sviluppato e gestito da Sofia Bargellini dello Studio Legale Lexellent di Milano: un’integrazione importante che ha aggiunto conoscenza e solidità nella gestione di quei casi che purtroppo devono passare la sottile linea rossa che divide la gestione manageriale da quella legale e contrattuale.
Un ultimo accenno alle modalità formative: credo fermamente che il metodo formativo più efficace per sviluppare le competenze comunicative e relazionali sia la sperimentazione individuale: la parte teorica del corso è infatti molto limitata e si utilizzano in elevate dosi i role playing e i debriefing post role playing per favorire l’apprendimento esperienziale. Ovviamente nelle simulazioni sarà il docente (sarebbe antipatico richiedere ai partecipanti di interpretare tale ruolo) a ricoprire il ruolo del low performer e il partecipante quello del capo.
Concludo, come si usa fare nei corsi di formazione, ricapitolando quanto detto, ma per comodità utilizzo uno schema di sintesi del metodo che è stato creato durante un brainstorming conclusivo da un gruppo di partecipanti a un corso in Wolters Kluwer Italia. Credo che, pur avendo una veste più da flow-chat che da conclusione di un articolo, sia una efficace immagine di un processo di gestione dei low performer. 

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