L’etnografia della formazione. Nuove frontiere per l’apprendimento

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di Domenico Lipari

Il diffondersi dell’approccio etnografico oltre i confini dell’antropologia tocca con crescente interesse una varietà di campi di studio ed è ormai parte integrante del bagaglio metodologico tanto degli antropologi quanto dei sociologi, degli analisti di organizzazione, dei formatori. Potenzialità pratiche dell’etnografia applicata alla formazione.      

La ripresa d’interesse per gli approcci qualitativi nella ricerca sociale trova un punto di riferimento cruciale nel processo di cambiamento che ha investito, a partire dagli Anni 80, le epistemologie contemporanee. La svolta linguistica, a iniziare dalla risonanza delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein (1967) e dall’influente contributo di Rorty (1967), rivaluta l’importanza del linguaggio rivendicandone la centralità nell’esperienza umana; la svolta narrativa, riconducibile ai contributi di Lyotard (1981) e di Bruner (2003), mette in dubbio il primato della scienza sulla narrazione rivalutando il sapere narrativo (che secondo Lyotard è a fondamento dello stesso sapere scientifico in quanto quest’ultimo, per essere espresso, deve necessariamente far ricorso al racconto) e il pensiero narrativo (ritenuto da Bruner importante tanto quanto il pensiero paradigmatico proprio della scienza classica); la centralità assegnata alla scrittura da un autorevole filone dell’antropologia contemporanea anticipato dall’opera di Geertz (1998) e poi ripreso dagli autori della celebre raccolta di saggi Scrivere le culture curata da Clifford e Marcus (2005) secondo cui il contenuto dei resoconti degli antropologi è da considerare alla stessa stregua di un genere letterario con conseguente centralità del testo e della soggettività del suo autore; infine, la svolta pratica teorizzata da Schatzki, Knorr Cetina e von Savigny (2001) suggerisce una nuova prospettiva di riflessione che assume come focus dell’analisi il modo in cui pratiche specifiche si esprimono in contesti determinati, rivendicando così il primato dell’agire localizzato che può essere compreso solo attraverso osservazioni e descrizioni specifiche.

Conoscenza sociale e approcci qualitativi
Le tendenze appena evocate hanno contribuito a generare, nel campo delle scienze sociali, un clima più favorevole rispetto al passato nei confronti dei modi di produzione di conoscenza fondati sugli approcci qualitativi.
Questi ultimi ormai occupano una posizione di tutto rilievo non solo tra le discipline accademiche, ma anche in sempre meno rari ambienti illuminati delle imprese e delle Pubbliche amministrazioni. Naturalmente permangono robuste sacche di resistenza in molti ambienti (e nelle convinzioni più radicate di senso comune): talvolta per un ricercatore non è facile far valere nel dialogo con i suoi interlocutori (committenti soprattutto) le ragioni dell’approccio qualitativo: ciò avviene non tanto sul piano della negoziazione dei termini tecnici e metodologici della ricerca, quanto piuttosto su quello della produzione dei risultati, dello stile argomentativo utilizzato per la loro esposizione, ossia sul piano della forma di scrittura dei risultati; se non hanno una robusta base quantitativa (magari supportata da grafici e tabelle) perdono di credibilità e dunque di valore. Ancora oggi è difficile far accettare uno stile diverso di ricerca non solo ai committenti, ma anche ai lettori e talvolta perfino a qualche collega della comunità degli studiosi: purtroppo alcuni secoli di dominio del modello sperimentale (al quale bisogna aggiungere le origini positivistiche delle scienze sociali) hanno lasciato un segno tale che per i nuovi approcci è davvero faticoso farsi largo. Ciò che negli assunti di senso comune è ancora oggi difficile da scalfire è il presunto crisma di scientificità del rapporto finale classico: molto schematicamente, si può dire che, in genere, una ricerca è considerata tanto più scientifica quanto più numerosi sono i dati quantitativi e quanto più tecnico è il suo linguaggio. Per quanto riguarda la mia esperienza, ho sempre avuto disagio per questa modalità di produzione dei risultati di ricerca perché si basa su un galateo espositivo subalterno e ipocrita: da un lato, in nome di una presunta oggettività, si allinea all’idea dominante di discorso scientifico, dall’altro lo fa ben sapendo che di oggettivo in quei resoconti non c’è proprio nulla.

Potenza evocativa della narrazione
L’approccio qualitativo, che trova legittimazione negli orientamenti della cultura contemporanea ai quali ho qui accennato, in virtù della sua sintonia con i mondi che intende esplorare (utilizzando a tale scopo metodi context sensitive che mettono al centro il punto di vista degli attori sociali) e, soprattutto in virtù della rilevanza attribuita alla scrittura, esibisce una potenza evocativa e una capacità di comprensione del tutto particolari.
Tra gli approcci euristici centrati sulla comprensione dei contesti locali e dei soggetti che ne sono i protagonisti assumendo prioritariamente il loro punto di vista, l’etnografia, in quanto metodo di ricerca e al tempo stesso scrittura dei risultati delle indagini come spiegato da Piccardo e Benozzo, ha un rilievo assolutamente privilegiato. Facendo riferimento alla definizione programmaticamente ‘minima’ (nelle intenzioni di chi l’ha enunciata) contenuta nell’editoriale del primo numero della rivista Etnografia e ricerca qualitativa (1, 2008, 4), l’etnografia “è uno stile di ricerca qualitativa fondato su un’osservazione diretta e prolungata, che ha come scopo la descrizione e la spiegazione del significato delle pratiche degli attori sociali”.
Questa formulazione consente, nella sua semplicità, di cogliere i tratti essenziali e di maggior rilievo del lavoro etnografico: innanzitutto, si tratta di ricerca basata sulla considerazione dei propri ‘oggetti’ d’interesse (cioè determinati fenomeni legati all’interazione sociale nella vita quotidiana) come caratterizzati da unicità non replicabile dell’esperienza e che, quindi, possono essere colti, compresi e descritti solo nella loro espressione concreta osservata nel suo manifestarsi e svolgersi, o ricostruita attraverso la testimonianza o il ricordo di chi ne è o ne è stato protagonista; in secondo luogo, il ricercatore è chiamato a immergersi nella realtà alla quale è interessato e a convivere (talvolta a lungo) con i processi e le dinamiche rilevanti di quella realtà allo scopo di comprenderne il significato; inoltre, l’osservazione (che è il tratto caratterizzante della ricerca), consente l’acquisizione sul campo dei dati necessari per descrivere e interpretare i fenomeni oggetto d’interesse; infine la descrizione, è cruciale poiché rende possibile il racconto della realtà osservata dando voce agli attori sociali che ne sono i protagonisti, e fa emergere un punto di vista, un’interpretazione su quella realtà.
Ben si comprende come, data una simile caratterizzazione del lavoro di ricerca, la conoscenza così ‘prodotta’ sia il frutto della capacità di comprensione e della sensibilità interpretativa del ricercatore e come la qualità di tale conoscenza, cristallizzata in un resoconto scritto, dipenda in larga misura dalla solidità argomentativa del testo, dalla sua densità narrativa e dalla sua capacità di suscitare consenso intorno ai contenuti proposti.

Strumento di indagine empirica
L’etnografia è dunque un metodo d’indagine empirica grazie al quale è possibile descrivere e raccontare l’esperienza degli attori sociali così come essa si manifesta all’osservatore nelle sue varie possibili espressioni. La  descrizione etnografica mette in evidenza il punto di vi sta di soggetti e di gruppi allo scopo di comprendere il significato da loro attribuito alla loro stessa azione e di restituire così resoconti plausibili delle realtà osservate. Questa specifica connotazione si è consolidata nel tempo radicandosi nella pratica del lavoro empirico dei sociologi e degli antropologi, e acquisendo, al tempo stesso, un grado di istituzionalizzazione ormai stabilizzato anche a livello accademico: non solo la produzione di ricerche fondate sull’approccio etnografico si è intensificata (anche in Italia, specie negli ultimi 15-20 anni), ma è anche aumentata la disponibilità di riflessioni epistemologiche e di lavori metodologici che arricchiscono una letteratura in crescente espansione.
Introducendo un numero speciale di Rassegna Italiana di Sociologia (1, 2009) dedicato agli sviluppi dell’etnografia in Italia, Cardano mette in evidenza come, accanto agli studi tradizionali interessati a contesti dell’interazione sociale definiti e stabili, i nuovi indirizzi dell’etnografia tendano a occuparsi anche di una varietà di ‘mondi’ e ambiti di esperienza che comprendono le “forme più volatili di interazione sociale” (come quelle che avvengono in luoghi di passaggio tematizzati e descritti come “non-luoghi” da Augé 2009 –aeroporti, stazioni, ecc.; o in luoghi virtuali del web– i forum, i blog, le chat). C’è da aggiungere che, in questo quadro di sviluppi, assumono un’importanza crescente le cosiddette “etnografie rapide” (Gobo, 2009) o “etnografie applicate”, quelle ricerche cioè interessate a studiare eventi situazionali effimeri, destinati a esaurirsi in un tempo breve; oppure interessate a cogliere le preferenze di pubblici selezionati allo scopo di lanciare (o migliorare la qualità di) un prodotto (la cosiddetta commercial ethnography); oppure volte a esplorare un fenomeno su cui si intenda portare alla luce aspetti poco chiari (come per esempio il giornalismo d’inchiesta); oppure, ancora, come nel caso delle “etnografie delle attività” etichettate anche come “etnografie mordi e fuggi”, orientate ad approfondire aspetti tematici particolari senza un ordine preciso di osservazione degli ‘oggetti’. Bisogna sottolineare che in tutti i casi qui brevemente evocati di lavoro etnografico, il tratto distintivo che ne caratterizza la pratica è costituito dal metodo dell’osservazione diretta e ravvicinata dei fenomeni oggetto di studio.
L’interesse per l’etnografia, nel momento in cui si sposta dal mondo della ricerca ufficiale per coinvolgere altri soggetti e altri ambiti istituzionali della società, genera una varietà di traduzioni e rimodulazioni metodologiche dando luogo a reinterpretazioni (talora originali) dell’approccio canonico, in cui comunque l’osservazione continua a mantenere la sua centralità e il suo ruolo di ‘strumento’ privilegiato di indagine.
Tra l’altro, l’osservazione etnografica, nelle nostre società contemporanee, è diventata il fondamento di molte professioni emergenti il cui numero è destinato a crescere. Rientrano tra le nuove professioni fondate sull’osservazione etnografica (Gobo, 2009) molte tra quelle che si occupano di marketing (con articolazioni specialistiche di una certa ampiezza); così come quelle prevalentemente impegnate nel settore turistico e legate alla sorveglianza (i bagnini); e infine quelle associate alle politiche di sicurezza (polizia, servizi segreti, ecc.).
Ma all’osservazione etnografica possono essere associate anche altre professioni che per tradizione sono vicine e sensibili all’influenza degli approcci più consolidati della ricerca sociale tra le quali rientrano certamente quelle legate all’analisi organizzativa.

Etnografia e formazione
Il riferimento agli ambiti di attività professionale vicini alle esperienze e ai metodi classici della ricerca sociale, soprattutto a quelli legati al campo degli studi organizzativi è un ottimo punto di transito verso il tema centrale di questo lavoro che riguarda le connessioni tra approccio etnografico e pratiche di formazione.
Attribuendo al termine “formazione” il senso in cui è comunemente usato per riferirsi ad attività didattiche realizzate in ambito extrascolastico, vorrei brevemente segnalare alcune delle ragioni che rendono la connessione tra etnografia e formazione plausibile e metodologicamente praticabile (oltre che utile) partendo da una domanda: perché accostare l’etnografia alla formazione e quale contributo può apportare tale prospettiva di lettura della realtà alla conoscenza ed (eventualmente) al miglioramento delle pratiche formative?
Per ora mi limito ad anticipare qualche considerazione assumendo come punto di riferimento le tre dimensioni costitutive dell’etnografia, ossia l’osservazione, la descrizione e la comprensione della realtà oggetto d’interesse (le pratiche formative, nel nostro caso). Se, avendo osservato (e osservando) pratiche, esperienze, relazioni, contesti, ecc. legati all’azione formativa, li descrivo e li racconto allo scopo di comprenderne le manifestazioni immediate, le dinamiche interne, le logiche d’insieme, e in tal modo produco dei resoconti etnografici sulle realtà osservate grazie ai quali sia possibile riflettere su di esse allo scopo di confermale, e, se necessario, correggerle e migliorarle, non c’è dubbio, allora, sul fatto che tali resoconti costituiscono (o possono costituire) un contributo rilevante dell’etnografia allo sviluppo di una pratica formativa più consapevole, più riflessiva, più energetica, più ermeneutica, più disponibile a riconoscersi e a cambiare.
In quest’ottica, l’etnografia, associata alla formazione, può diventare un formidabile veicolo di apprendimento. Infatti, in quanto essa si propone (attraverso l’osservazione) di cogliere i significati attribuiti alle pratiche dagli attori che ne sono i protagonisti e in quanto tali significati sono ‘co-costruiti’ poiché derivano dalla relazione osservatore- osservato nella quale ogni evento trova il suo senso specifico, l’etnografia delle azioni formative può configurarsi da un lato, come una pratica trasformativa, essendo legata a un’esperienza in cui le precognizioni del ricercatore influenzano l’evento e gli attori con cui entra in relazione e sono da essi influenzate (è in questa relazione che si generano nuovi significati e nuova conoscenza, quindi apprendimento e cambiamento); dall’altro, come un processo ricorsivo e circolare di produzione di conoscenza generato dalla dinamica relazionale tra osservatore e osservato; infine, come esperienza caratterizzata da unicità che la rende un caso singolare di interpretazione locale oltre che di costruzione sociale di realtà.
Queste brevi considerazioni dovrebbero essere sufficienti a rendere evidente il valore pratico della relazione tra etnografia e processi formativi. 

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