Cambio vita: l’informatico diventato responsabile vendite per la Cina

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Di Luca Frediani

Da informatico a esperto di Cina. È la second life di Luca Frediani che ha imparato il mandarino grazie ai corsi su cd, studiando prima di andare a lavorare: il suo impegno è stato scoperto dal titolare dell’azienda che l’ha spedito in missione in Oriente. E dopo quella prima esperienza, ne sono seguite molte altre, finché l’ex tecnico informatico è diventato il punto di riferimento dei clienti del Celeste Impero.
In questa narrazione l’autore svela il lato meno noto del Dragone, portandoci per le strade e nei locali da cui gli occidentali si tengono (erroneamente) alla larga.

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Dopo tre anni nel settore del lapideo, avevo bisogno di ‘crescere’, fare qualcosa in più della solita routine lavorativa e, perché no, tenermi saldo il posto visto il contratto in scadenza. Decido così di imparare il cinese da autodidatta.
Sveglia alle 6, tazza di tè, libro e cd. Alle 8 in ufficio. Dopo quattro mesi concludo un’inaspettata vendita con la Cina e il capo, sorpreso –ma senza darlo a vedere– mi dice: “Allora è così? Bene, da domani là ci vai tu, tanto a me non piace quel posto”.
Mi caricano su un aereo in compagnia di un veterano dell’Oriente con esperienza ventennale di commercio e viaggi. Lui ha visto le risaie diventare grattacieli e centro del business mondiale.
Atterriamo: una foresta di palazzi, rampe, autostrade, cavalcavia, traffico, grattacieli. Saltiamo la fila per il taxi, una Mercedes nera ci aspetta per portarci in albergo. Servizio di lusso. Tento di scambiare le mie prime parole in Cina, in cinese, con l’autista: è sbalordito, pare che qui sia assurdo che un occidentale parli la sua lingua. Ci capiamo, ma intuisco subito che sarà dura: l’accento del Sud è molto diverso da quello dei cd che ascoltavo. È come passare da Bolzano a Palermo e pensare di ascoltare la stessa dizione dell’italiano.
In albergo sbrighiamo le pratiche in uno stentato inglese dell’addetto alla reception: lascio che sia il collega a gestire la situazione.
Un Suv ci aspetta fuori dall’hotel per andare a cena. Poco dopo siamo al 30esimo piano in un ristorante di lusso. Aragoste, nidi di rondine e un vino d’annata. Si fanno e si ricevono promesse, si conclude qualche affare, si parla di progetti. In inglese. Mi annoio. Cerco di conversare con alcuni venditori, con la cameriera, con chiunque. Tutti superano lo stupore iniziale e abbandonano la rigidità che avevano fino a pochi secondi prima: raccontano di figli, scuola, traffico e bollette. Scopro che esiste una Cina dietro ai vetri oscurati del Suv.

Un ‘alieno’ in giro per il Celeste Impero
Torniamo in albergo e non resisto, devo uscire. Smartphone con alfabeto e vocabolario cinese, secondo telefono nascosto nel calzino e indirizzo dell’albergo su tre fogli diversi. Da queste parti non ci sono mai stato e non so cosa possa succedere alle 22 per strada in Cina. E, per giunta, da solo.
Fermo un taxi giallo e viola con una bombola del gas che spunta da sotto il sedile: “A comprare del tè”, chiedo al tassista. Stracciamo il codice della strada, sorpassiamo a destra, poi a sinistra, poi tagliamo la strada a un motorino; un ciclista cerca di suicidarsi sotto le nostre ruote e imparo il mio primo insulto in cinese. “Qui si guida così”, mi dice l’autista ancora scosso dal fatto che io parli la sua lingua.
Ci sono negozietti che stanno per chiudere e i proprietari, che ci vivono dentro, stanno preparando i letti. Entro nel negozio di tè. “Un alieno”, sembrano pensare due ragazze e un anziano seduti al tavolo. Arranco con la lingua, restano stupefatti, ma arrivo al dunque. Dopo tre ore sono ancora a quel tavolo ad assaggiare tutto il tè della Cina parlando di cucina, vino e Roberto Baggio. Qui lo stereotipo sono io.
Esco ‘strafatto’ di teina e accendo il gps sullo smartphone. Cerco “persone vicine” sulla versione cinese di Facebook. Ottengo tre risultati: una prostituta; uno che ha delle prostitute da propormi; una ragazza in giro con amici. Scelgo la terza soluzione e la raggiungo. Siamo un locale, beviamo birra calda e vino ghiacciato. Tutti mi chiedono una foto. Abbozzano qualche domanda in inglese, rispondo in cinese, sgranano gli occhi, sorridono. Unico occidentale nel raggio di qualche chilometro: gli altri sono tutti in qualche bel ristorante o nella hall di un albergo.
Alle 6 del mattino rientro. Incontro il collega che sta andando a fare colazione. “Già sveglio?”. “Ehm… Cosa? Ah…sì”. “Ma dove sei stato?”. Ripenso in un attimo a tutto quello che mi è capitato. “In Cina”, rispondo.

Il “postaccio” che pochi conoscono
Altri viaggi. Da solo, perché a differenza dei miei colleghi del settore ho imparato a muovermi e comportarmi; ho capito questa gente, i loro modi di fare e ciò che per noi sono assurdità.
All’aeroporto prendo il taxi, non ho bisogno dell’autista. La valigia non entra quasi mai nel bagagliaio perché c’è sempre un gigantesco, quanto artigianale, impianto a metano che occupa tutto il baule. L’auto traballa, saltella, prende qualche incrocio contromano e quasi ammazza due ciclisti.
Visito i clienti senza nemmeno scomodare il loro ‘cervellone’, quello che mastica qualche parola di inglese. Apprezzano che io cerchi di essere come loro, come se mi fossi ‘abbassato’ al loro livello: quando chiamano in ufficio chiedono di me e ormai non usano nemmeno più il numero di telefono del mio titolare: mi cercano se ci sono problemi e chiedono direttamente a me se il prezzo fatto dal capo sia giusto per la qualità del prodotto che hanno comprato.
Durante un incontro un cliente si deve assentare per ‘mezz’ora’. Mi lascia in compagnia dei suoi manager e venditori. Uomini e donne apparentemente di 20 anni, anche se so bene che ne avranno minimo 30. Hanno un vita ‘normale’. Mi parlano degli stessi problemi che ho io qui in Italia. Il cliente torna dopo tre ore (la puntualità non è cinese) e mi porta a cena in una finta Cina fatta di marmi, onici e aragoste.
Affari, ordini, progetti, economia: molto interessante, mangio tutto e poi esco. Recupero il contatto dellavenditrice più carina e mi faccio venire a prendere. Siamo in sette in una Yaris e comprendo l’origine di vecchie barzellette sulla Cinquecento. Pub, musica dal vivo, birre cinesi, bagni che si possono tranquillamente chiamare “cessi”, ciclisti suicidi.
Il giorno dopo sono più libero e vado a cena con la figlia di un cliente. Sa già chi sono, potrebbe portarmi nel ristorante extra lusso, invece mi fa accomodare a un tavolo in una bettola con i muri scrostati. Faccio domande, mi zittisce subito: “Il cinese mangia tutto quello che ha le zampe tranne il tavolo e la sedia”. Mangio tutto. Buono.
Una signora decapita un pesce con una mannaia su un ceppo di legno a pochi metri da noi: schizzano sangue e interiora dappertutto. Nessuno va in giro in ciabatte da queste parti: guardo il sangue per terra e capisco il perché. Andiamo sulla collina, qui si vedono le stelle, impossibile farlo in centro a causa dell’inquinamento. Ci sono il tempio, i monaci, gli incensi, le poesie incise su lapidi di granito, le statue di Buddha, di guerrieri e di draghi. I bambini mi chiedono una foto.
Scendiamo fino all’Anping Qiao, un ponte in pietra di 2mila anni che collega due città sulle sponde di un lago melmoso. Faccio domande sullo stato della costruzione. Mi dicono che anping vuole dire “sicuro”. Tanto basta, ho imparato anche una parola nuova.
Statue, chioschi, templi, draghi. Sul ponte. Tanto è anping, ci possono costruire tutto quel che vogliono, no? A colazione incontro il mio titolare arrivato la sera prima. Mi guarda mangiare baozi, panini cinesi al vapore: “Vent’anni che vengo qua, che postaccio”.
No, non è un “postaccio”, è solo che non ci sei mai stato.

L’arte di contrattare su tutto
Colleghi e clienti italiani ormai mi chiamano “il cinese”. I cinesi mi chiamano per nome e si relazionano solo con me: addirittura mi invitano ai matrimoni dei figli.
Altro viaggio e questa volta prendo un traghetto che mi porta su un’isoletta davanti alla città. Il parco, la spiaggia, una statua di 30 metri scolpita nella scogliera, il trenino, gente che mi chiede la foto, i mercatini. Qui si contratta su tutto, si sbuffa, si urla, quasi ci si insulta, si finge di volersene andare e poi chengjiao, affare fatto. Vago per minuscoli vicoli evitando accuratamente i rivoli di sangue che arrivano dai ceppi su cui donne puliscono la cena. Al rientro, sul molo, mi aspetta una vecchia conoscenza. Andiamo al parco. Ma qui c’è un parco! Nessuno me lo aveva detto: ma cosa ci siete venuti a fare per 20 anni da queste parti?
All’interno un viale in pietra con luci colorate dal pavimento, ai lati fontane e ruscelli che vanno dritti al mare, anziani che praticano Tai Chi, bambini che corrono e che mi chiedono la foto.
Oggi c’è una nebbia che mi fa sentire dalle parti di Piacenza, ma questa non è nebbia. Comunque mi ricordodove sono quando un motorino con una donna e tre bambini mi sorpassa sulla destra mentre un trattore rugginoso che traina maiali arriva dall’altra corsia sbuffando e sbandando.

Mai abbassare lo sguardo con nessuno
In fiera ho a che fare con pagamenti arretrati da pretendere, la mia missione del giorno. Si affrontano i grandi capi che qui sono davvero ‘padroni’ nelle loro aziende e perciò venerati e rispettati. Si affrontano a muso duro, con decisione. Bisogna essere anche ‘minacciosi’ e da queste parti vince sempre chi non abbassa lo sguardo. Stretta di mano, andiamo a cena. Mentre usciamo ci vengono incontro sei bellissime ragazze vestite in qipao (il tipico vestito delle donne cinesi) che reggono ognuna un cartellone con il nome dell’azienda per cui fanno pubblicità. Camminano in fila, ordinate e vestite tutte allo stesso modo. Ma su scarpe e calze hanno avuto massima libertà: il risultato è un miscuglio di scarpe da tennis e stivali. L’attenzione per il dettaglio non è prerogativa di questo Paese.
Al termine mi viene proposta la tipica serata del cinese benestante: centro massaggi e karaoke. No, non sono dei bordelli: si tratta di una vera spa e il karaoke non nasconde secondi fini. La differenza con l’Italia è che qui si mangia, si beve, poi si mangia e si beve ancora. Il tutto in compagnia di una ragazza che sta lì seduta a fare altrettanto. Ne approfitto per parlare in cinese tutta la sera (e per rifarmi un po’ gli occhi).
Andare al centro massaggi è un simbolo di ricchezza. Entriamo e una donna di poco più di quaranta chili che sembra una ragazzina (in realtà avrà almeno 35 anni) mi invita ad accomodarmi. Cosa potrà mai fare con quelle braccine me lo dimostra in pochi secondi: mi scrocchia la schiena, mi spezza il collo e mi sloga la spalla. Esco da lì nelle condizioni di un sacco da boxe usato. Il giorno dopo mi sveglio in un letto di chiodi per le percosse subite.

Il Dragone non è solo un salvadanaio
Ultimo giorno di trasferta. Mi salutano tutti calorosamente, unico occidentale dell’albergo a parlare cinese e a cercare un po’ di conversazione informale. Insisto per restare: non mi hanno ancora consegnato i vestiti mandati in lavanderia due giorni fa. Non hanno la minima idea di dove siano finiti e lo capisco perché in tre mi danno altrettante versioni diverse. Qui ammettere di non sapere è un’umiliazione, meglio inventare qualcosa, qualunque cosa. Indosso la maschera dell’uomo minaccioso, la stessa che serve con i clienti che non pagano: i vestiti saltano fuori in meno di 30 secondi.
La sera sono con il mio titolare e un commerciante che viene in Cina da 30 anni. Parliamo di clienti, spedizioni, prezzi, economia. Ordiniamo da bere in inglese a un ingessato cameriere.
Io invece parlo dell’isola, del parco, del traghetto, della ragazza del karaoke e della figlia del cliente.
“Ma quale isola?”, mi chiede il commerciante. “Quella con la gente che ammazza i pesci per strada? Ma che schifo, io dopo dieci minuti me ne sono tornato in albergo: sono degli animali qui e le cinesi sono dei cessi”.
Lascio perdere. Per loro questo posto vale solo i soldi che portano a casa. Ma potrebbero farne molti di più se solo, umilmente, cercassero di inserirsi e mettersi alla pari con loro. E potrebbero farli divertendosi, stando bene.
Mi arriva all’orecchio una frase del commerciante: “La Cina la conosco bene, io”. Penso a tutto quello che mi è successo negli ultimi anni e a quello che ho vissuto nelle ultime ore. Siamo nella hall di uno Sheraton e beviamo prosecco. “Sì, la conosci proprio bene”.

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