|approfondimento| La palestra della leadership e l’importanza del perché

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Tommaso Raimondi

 

Premesse

Sono trascorsi due anni e mezzo da quando mi sono dedicato, quasi in modo esclusivo, e con passione indomita, allo sviluppo della leadership.

L’ho fatto perchè ho lavorato per quasi 30 anni in diverse aziende, ho visto e conosciuto molti manager, sono stato manager (direttore risorse umane) e ho capito quanto sia difficile ‘sviluppare’ le proprie capacità manageriali in modo ‘evidente’.

Ci sono assumptions molto condivise a monte. Appare chiaro che i comportamenti delle persone che lavorano sono fortemente orientati dai comportamenti dei capi. I risultati aziendali sono normalmente il frutto certamente di buone strategie (che non sempre sono tali) e poi del cosiddetto ‘engagement’ delle risorse impiegate per perseguirle.

Cosa facilissima di dire. Quasi lineare. Poi le indagini in Paesi neppure poi così in crisi come gli Stati Uniti ci dicono che solo il 30% del personale in azienda è pienamente ‘engaged’. Il resto è not engaged o peggio ancora fortemente ‘avverso’ nei confronti dell’azienda (fonte Gallup)[1].

Quindi da una parte ci sono i risultati, dall’altra il livello di motivazione delle persone. Ci sono le strategie, gli investimenti. E poi le scelte tattiche. E poi i vincoli normativi e politici. OK, tanti fattori impattano. Ma l’influenza dei manager sul tutto … è razionalmente compresa ma di fatto è visto molto spesso come fattore non ‘prioritario’. Quindi sviluppare la leadership non è una priorità. Bello. Utile, ma non prioritario.

Questo è un dato di fatto che avverto profondamente nel mio iniziare a proporre alcune tra le metodologie che ritengo più efficaci in genere per modificare i comportamenti manageriali e accrescere la leadership.

Lo sviluppo della leadership non parte dal perché

In questi giorni verrà presentato in Italia un testo di un autore americano che parla di leadership e non solo. Nel suo libro, “Partire dal perché” Simon Sinek[2], tratta proprio del tema delle capacità effettiva di ispirare gli altri da parte di manager, uomini di marketing, imprenditori, ecc. Il problema quindi, citando Sinek, è che di norma si parte o si propone qualcosa o si enfatizza il come ma non si ricercano mai profondamente le radici profonde di ciò che spinge in genere un individuo (che sia collaboratore, cliente, partner, ecc.) a seguire una direzione indicata. Cioè non si parte mai dal perché.

Nel caso dello sviluppo della leadership e del tema citato nelle premesse credo il focus debba essere non tanto sul cosa viene proposto (un ottimo programma di sviluppo) o sul come (programma basato sull’esperienza, impattante, veloce) ma sul perché.

La tesi di Sinek che peraltro è sorprendentemente connessa alla visione espressa da Dave Ulrich nel suo Il perché del lavoro è che i capi devono compiere un grande sforzo per ispirare i collaboratori. La capacità di ispirare i collaboratori nasce dalla comprensione profonda della necessità di partire proprio dal perché, dal ‘meaning’, dal significato che spinge un collaboratore a offrire qualcosa in più del mero rispetto dell’orario di lavoro o di quanto è stabilito a livello contrattuale. I capi devono essere generatori di senso per gli altri, e questa è una sfida complessa.

Per questo, credo riusciamo a concordare almeno da un punto di vista razionale, le competenze manageriali vanno sviluppate, ma richiedono, oltre che ottimi coach o formatori, la forte determinazione e l’applicazione del manager a perseguire il proprio sviluppo personale.

La domanda da porsi dovrebbe quindi essere: perché oggi un manager dovrebbe essere interessato a sviluppare le sue capacità manageriali ?

Qualcuno potrebbe dire: “ma cosa significano questi dubbi” ? Se siamo in presenza di un top management davvero illuminato il lavorare sul miglioramento potrebbe essere ‘forzato’ dall’alto. Cioè l’AD o il fido HR potrebbero imporre ai manager un ottimo programma di sviluppo ed in qualche modo potrebbero essere misurati i risultati. Quindi la spinta, al di là del sostanziale obbligo alla partecipazione, potrebbe essere dato dalla consapevolezza che verranno misurati i risultati o il gap tra una valutazione di competenze all’inizio del percorso e una effettuata intelligentemente a fine percorso.

Certamente questa è una spinta. Un incitamento. Ma non è un perché. Questa spinta è comunque fondamentale ma richiede una grande energia e costanza (che spesso non è denotata dal vertice aziendale su questi temi) Diciamo chiaramente che senza almeno la sponsorship dall’alto qualsiasi piano di sviluppo può offrire i più alti livelli di efficacia per l’azienda creando al massimo coesione durante i coffee break, le pause pranzo, le cene, l’utilizzo delle splendide strutture residenziali a volte impiegate in questi casi (sempre meno), i giochi di ruolo, le immersioni nel fango nella finta foresta creata apposta per i programmi di team building outdoor.  Insomma, siamo lontanissimi.

Lo sponsorhip dall’alto è quindi condizione necessaria ma non sufficiente.

Se poi esiste una eccessiva ‘costrizione’ possono generarsi effetti contrari – avete in mente i bambini?

Allora come si genera il sacro fuoco che convince il singolo manager a lavorare davvero e “prioritariamente” sullo sviluppo della sua leadership, al limite accettando l’aiuto di un consulente, di un coach, di un capo, di un collega e perché no di un collaboratore?

Come ispirare i manager a lavorare su se stessi

Dopo due anni e mezzo in questo campo sono arrivato a focalizzare la mia attenzione su questo nodo cruciale. Qualcuno dirà…. veloce! Ci voleva tanto?

Bene. Una cosa è porsi il cruccio, altro è ricercare davvero una soluzione. Con una presunzione che non è ovviamente ammissibile: può essere facile parlare di se stessi, difficile o quasi impossibile generalizzare sugli altri, ciascuno con la sua storia, la sua realtà, il suo carattere.

Questo è un altro problema. I consulenti possono trovare prioritario pensare al miglioramento degli altri come manager. Hanno tempo di farlo. Per loro è anzi prioritario, se si occupano di sviluppo manageriale. I manager non hanno tempo. Non ne colgono la priorità

Su questo punto i consulenti dovrebbero ampiamente riflettere.

Certamente dovrebbero imparare a generare più perché che meravigliosi programmi, semmai presentati da autentiche star della formazione, prodigiosi oratori, carismatici guru, generatori di emozioni nuove.

Se la formazione in genere resta un bel film di cui ricordi alcuni tratti o atmosfere e che semmai dopo qualche anno ti viene voglia di rivedere, avrai ottenuto come consulente un buon successo ma non è detto che gli spettatori ‘cambino’ davvero atteggiamenti, comportamenti.

La leadership è peraltro arte sfuggente e indefinita. I paradigmi per definire un leader eccellente o pessimo ricadono nella soggettività… e, a mio avviso gli unici punti di riferimento sono le valutazioni a 360° se ben strutturate e gestite, e inevitabilmente i risultati misurabili con una serie di KPI’s tra i quali i parametri di clima aziendale, il turnover di collaboratori e specialmente di talenti, e indirettamente, anche in relazione ai ruoli, gli indicatori di performance commerciale o legati alla redditività.

In primis posso dire che ho trovato sempre come elemento imprescindibile per ‘accendere’ il motore della determinazione di un manager a lavorare sul proprio sviluppo l’assoggettamento ad un feedback strutturato, tipo un 360°. Di norma ci sono non poche resistenze da parte degli stessi manager a sottoporsi a un 360° ma questo è un passo di cui in genere le direzioni HR con il forte indirizzo dato dal top management e l’eventuale supporto della consulenza devono esprimere la massima ‘intensità’ nella presentazione dei ‘vantaggi’ che tale strumento offre ai manager (fugando –per quanto possibile– dubbi e preoccupazioni).

Di norma i risultati del 360° sono un feedback possente che comunque ha il vantaggio di toccare delle corde sottili e profonde nella sensibilità di chiunque lo riceve.
È un punto di partenza che però non risolve il problema della determinazione a intraprendere con costanza ed energia un piano di sviluppo individuale.

Proprio a questo punto ritorna in gioco la consulenza che deve sapere giocare di sponda con il top management e la funzione HR per ‘accendere’ la determinazione. Qui di norma casca il cosiddetto asino. La smania di vendere prodotti formativi presunti ‘idonei’, efficaci, splendidi non risolve la tematica del committment vero del manager.

Non voglio dire che non si debba necessariamente offrire formazione e coaching. Occorre però a questo punto lavorare, come dice Sinek, sul “Way”.

Il cambiamento e lo sviluppo sono legati ad applicazione, esercizio, messa in pratica non in laboratorio ma sul campo delle necessarie azioni. Azioni. Comportamenti. Osservazione degli effetti. Presa di coscienza dei miglioramenti. Ma tutto questo ‘perché’?

Purtroppo è ancora relativamente facile suscitare i perché, basta chiederlo.

La difficoltà è darsi risposte che restino profondamente incise a livello interiore e che spingano davvero, senza forzature, il manager a lavorare sul proprio sviluppo.

Il perché della palestra

Pensiamo a quanta determinazione molte persone, nella propria vita, attribuiscano ad attività apparentemente collaterali sia all’ambito delle proprie priorità percepite nelle dimensioni famigliari, lavorative e dei propri interessi (passioni) principali. Prendiamo per esempio la fatidica propensione al fitness…. La palestra. Molte persone dedicano con costanza incredibile un’ora al giorno per una attività che loro stessi definiscono ‘stancante’ e ‘noiosa’.

Perché lo fanno? Troviamo spesso in palestra manager impegnatissimi, pigri pensionati, casalinghe annoiate, studenti indaffarati.

Se chiediamo loro ‘Perché lo fai?’ semmai non ti daranno una risposta davvero sentita, eppure ciascuno di essi certamente un perché ogni tanto se lo pongono. Cosa spinge le persone a trovare il tempo per fare una cosa neppure tanto piacevole, indipendentemente dalle maledette priorità di altra natura?

Alcune risposte (dette o non dette):

  • per stare bene
  • per sentirsi dinamici
  • per perdere peso
  • perchè mi rilasso
  • perché conosco altre persone
  • perché mi sento come gli altri
  • perché mi piace l’ambiente

Certamente, possiamo affermare, che la risposta ‘vera’ (semmai inespressa) a un perché sia la molla per decidere di praticare il fitness.

Il perché del lavorare sullo sviluppo della leadership

Torniamo in azienda e rifocalizziamoci sullo sviluppo della leadership. In questo caso è piuttosto raro chiedersi perché.

Un manager viene obbligato a partecipare a un programma di formazione o sceglie di partecipare ad un programma di formazione ma difficilmente porrà la stessa energia, costanza e determinazione nel perseguirlo.

Dicevamo prima che un percorso di sviluppo possa essere ‘venduto’ bene dai consulenti o dalle funzioni HR, ma il committment vero è un’altra cosa.

Come consulenti quindi ritengo sia doveroso aiutare i manager a esprimere delle vere risposte a perché sviluppare la propria leadership.

Se non distilliamo questo perché avremo manager entusiasti per un buon corso di formazione ma mai davvero orientati a modificare i propri comportamenti.

Concretamente, quindi, un consulente esterno (o una direzione risorse umane che intenda attivare un incisivo piano di sviluppo della leadership) dovrà prevedere un set di interviste preliminari con i manager coinvolti e lavorare maieuticamente sul perché.

Proviamo a immaginare concretamente delle possibili risposte:

  • perché devo fare carriera
  • perché devo imparare a gestire situazioni più complesse
  • perché i miei collaboratori non mi seguono
  • perché non riesco a gestire il tempo
  • perché devo imparare a delegare
  • perché non riesco più a fare tutto da solo
  • perché sono insicuro
  • perché non sono autorevole
  • perché continuo a perdere collaboratori
  • perché sento che sia giunto il momento di diventare un vero leader

Ciascun manager nel dare una risposta a questo perché si darà una ragione e una motivazione, tanto più forte quanto più la risposta è sentita e vera.

Possiamo tra l’altro affermare, a fronte di osservazione diretta, le risposte ai perché possono scaturire più facilmente a fronte di risultati di 360°, come menzionavamo in precedenza.

Il problema è che normalmente il processo di avvicinamento del manager alle tematiche di sviluppo manageriale non parte mai da questa consapevolezza. A volte è, come dicevamo, imposto dall’alto, a volte nasce comunque come opportunità (spesso a cui è difficile dire no, vedi ad esempio l’inevitabile ‘spinta’ generata dalla formazione finanziata ‘tanto non ci costa nulla’…).

Credo che a questo punto sia assolutamente indispensabile a priori, prima di parlare di metodologia e contenuto del piano di sviluppo, seguire questo percorso sulla risposta al perché. Tanto più se tale risposta non sorge implicita – in tal caso sarà già scattata nel manager la giusta propensione a lavorare su se stesso.

Deve esserci un perché, fosse anche il rispetto della chiara volontà dall’alto, che può di fatto ricondursi a vantaggi percepiti (vedi sopra) o più profonde certezze della necessità di considerare questa attività non collaterale ma una sentita priorità.

Conclusioni

Se mi avete seguito fino a questo punto vorrei fare una affermazione consequenziale.

Mi rivolgo ai consulenti. Ma siamo così sicuri di fornire davvero ai manager le giuste soluzioni per lavorare concretamente sul proprio sviluppo?

Se guardiamo l’elenco di possibili risposte (e ce ne possono essere tante altre) comprendiamo quanto sia necessario supportare individualmente ciascun manager partendo dai suoi perché.

Se non comprendiamo questo seguiamo certamente le direttive aziendali (es. vogliamo sviluppare la competenza manageriale all’innovazione o all’orientamento ai risultati) ma non è detto che ‘metteremo’ i manager di lavorare davvero sullo sviluppo della competenza richiesta dall’azienda.

Deve essere chiaro che non sto dicendo “formiamo i manager secondo ciò che piace a ciascuno di essi”. Non facciamo 10 corsi dedicati e differenti per 10 diversi dirigenti. Ma semplicemente se saremo stati in grado di riflettere con ciascun manager sul ‘perché’ adatteremo il ‘come’ e il ‘cosa’ per raggiungere l’obiettivo di sviluppo desiderato dall’azienda.

Dopo due anni e mezzo nel campo sono arrivato a questa mia personale posizione, che non sta da nessuna parte se non quella di una onesta pretesa di efficacia e di efficienza nella ricerca dei tanti decantati strumenti di sviluppo della leadership.

Oggi a mio avviso il problema è vincere la spinta che allontana inevitabilmente i manager dal considerare prioritario il lavoro su se stessi.

Come dicevo all’inizio non servono generalizzazioni. Al contrario serve una personalizzazione paziente e puntuale finalizzata ad ‘accendere il committment’ a fare, più che generare splendidi film.

Se non siamo in grado di stimolare le risposte al perché dare importanza allo sviluppo manageriale non otterremo molto. Potremo dirci soddisfatti non alla fine di un corso ma se vedremo i nostri manager sudati, trafelati, ma sempre presenti in palestra… E intenti a svolgere gli esercizi più idonei al soddisfacimento delle proprie risposte ai perché.

E questo, ripeto, è solo l’inizio.

I manager che hanno cominciato con passione e determinazione a lavorare su stessi devono adesso riuscire a lavorare a loro volta sul ‘why’ dei collaboratori.

La strada è impervia, ma se non si inizia non si va molto avanti…



[1] http://www.gallup.com/services/178514/state-american-workplace.aspx

[2] Simon Sinek – Partire dal perché – Franco Angeli 2014

 

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